Ora potrebbe essere un bene che le forze armate si siano professionalizzate, se non fosse per un altro sicuro segno che dice come le istituzioni civili stiano deludendo questa dolente democrazia filippina.
Nella proclamazione della legge marziale nelle Filippine il 23 maggio passato da parte di Duterte, all’indomani dell’assalto a Marawi, il presidente Duterte citò la presenza di stranieri tra i combattenti ed il rischio di una “invasione” che avrebbero potuto costringerlo ad estendere la legge marziale all’intero paese, se fosse stato necessario per “proteggere il popolo”.
E così all’improvviso milioni di filippini si svegliarono con la minaccia dello stato islamico e il ritorno potenziale ad un autoritarismo incontrollato.
Sembra che la democrazia filippina si trovi, dopo tanti anni, nel suo momento più delicato.
Inoltre, mentre il sistema dei pesi e contrappesi è ostaggio della popolarità di Duterte, i militari sembrano essere i migliori guardiani della dolente democrazia filippina oggi.
Nel 1972 il presidente Marcos per dichiarare la legge marziale invocò le insorgenze comunista ed islamica, e nel de periodo che rimase in vigore, migliaia di capi dell’opposizione ed attivisti furono torturati ed uccisi con l’aiuto delle forze armate.
Nel 1986 Marcos fu cacciato da una rivoluzione popolare e la costituzione del 1987, in vigore oggi, fu scritta affinché il paese non ritornasse di nuovo nella dittatura. La costituzione richiede, tra le tante cose, che sia il parlamento che il sistema giudiziario prendano in esame la validità e l’applicazione di ogni proclamazione di legge marziale.
Ma Duterte ha una supermaggioranza parlamentare, e in parte a causa di ciò, ha promesso, in un primo tempo, di sfidare la Corte Suprema se osasse contraddirlo.
Il 29 maggio gli alleati del presidente nel Senato affermarono la legalità della sua dichiarazione di legge marziale, seguiti a ruota dalla camera dei deputati. La scorsa settimana un gruppo di esperti legali e membri dell’opposizione hanno chiesto alla Corte Suprema di esprimersi sulla validità della legge marziale. In questa settimana la corte dovrebbe fare le audizioni orali su questa faccenda.
Finora i militari sono coloro che hanno parlato a voce alta. Appena dopo la dichiarazione di legge marziale da parte di Duterte, il ministero della difesa ha rilasciato delle linee guida che indicavano che la legge marziale “non sospende l’operatività della costituzione”, né il funzionamento dei tribunali o della legislatura, né sospende il mandato di Habeas Corpus. Vari ufficiali della sicurezza tra i quali lo stesso ministro Lorenzana, dissero ai senatori in un incontro a porte chiuse che avevano consigliato a Duterte di non dichiarare la legge marziale a Mindanao.
A Marcos ci vollero anni di pianificazione attenta e di generosità negli anni 60 e 70 per guadagnarsi il sostegno dei generali. Da allora i militari giocarono un ruolo fondamentale nell’applicare la repressione con repressioni brutali sui dissidenti, sui giornalisti e democratici.
Reagendo a quel periodo traumatico, le amministrazioni di presidenti riformisti, come Fidel Ramos e Benigno Aquino, lavorarono con la società civile a rendere le forze armate professionali, a riformare l’istruzione militare per sottolineare la fedeltà alla democrazia, facendo del merito, piuttosto che delle conoscenze, la base per la promozione di grado. Di conseguenza i militari sono diventati pian piano sempre meno politicizzati.
Questo cambiamento è una sfida per Duterte. Nel suo primo anno di presidenza ha cercato di portarsi dalla sua parte i militari offrendo loro salari migliori, più benefici e migliore equipaggiamento. Ma queste promesse saranno difficili da mantenere in parte a causa di limiti costituzionali e di cassa sulla spesa della difesa.
Anche se quelle promesse saranno soddisfatte, non riusciranno a compensare il fatto che il presidente e i militari sembrano essere molto distanti su questioni importanti della sicurezza.
A febbraio nel mezzo dei negoziati di pace con l’insorgenza comunista, Duterte in modo semiserio mise in guardia sul non chiedere troppe concessioni per evitare il rischio che sia cacciato da loro. Per vari decenni durante la guerra fredda i comunisti sperarono di creare un sistema marxista leninista nelle Filippine; oggi però si sono ridotti ad una forza di poche migliaia di ribelli, dispersi nelle aree più povere. Alcuni capi vogliono un accordo di pace in cambio di immunità, il rilascio di prigionieri o di certe riforme politiche, ma sono divisi sul come andare avanti.
Mentre era sindaco di Davao, Duterte, che fu studente dell’ideologo dell’insorgenza Jose Maria Sison e che si descrive come socialista, fece un accordo con i comunisti che occupavano parte della città. Da quando è diventato presidente, sperando in un accordo nazionale, ha ordinato il rilascio di
alcune figure fondamentali dell’insorgenza invitando nel suo governo politici della sinistra.
Dopo decenni di campagna di controinsorgenza i capi militari continuano a trattare con sospetto i ribelli comunisti e i loro simpatizzanti. Ogni volta che si sono fermati i colloqui di pace, l’esercito ha immediatamente riesumato la lotta totale verso di loro.
Duterte è anche parso volenteroso a cambiare l’orientamento della politica estera filippina verso la Cina. Ha provato ad abbassare i toni sulle dispute in mare proponendo progetti di sviluppo congiunto nel mare cinese meridionale. Ha invocato relazioni di commercio ed investimento più profonde come anche legami di difesa come esercitazioni militari e acquisto di armi cinesi.
Ma il potere della difesa filippina, sia nei militari che civili, guardano alla Cina come una minaccia principale.
I cambi nella politica verso la Cina hanno posto il presidente contro i militari per le relazioni con gli USA. Duterte ha parlato molto sul declassare i legami di sicurezza con Washington fino a sospendere la tradizione storica di tenere esercitazioni congiunte nel Mare Cinese Meridionale.
Il potere militare da parte sua vede ancora negli USA, con la loro fonte decennale principale di intelligence, di finanziamenti, addestramento ed equipaggiamento, un partner indispensabile contro le minacce interne ed esterne.
La battaglia a Marawi potrebbe ora spingere Duterte ai limiti del proprio mandato presidenziale. Contrariamente alla sua retorica antiamericana, le forze speciali USA stanno dando ai militari filippini addestramento, sorveglianza e intelligenze sul campo. Il presidente ha detto di non averlo chiesto ma ha ammesso: “I nostri soldati sono davvero proamericani e non posso negarlo”
Sulla quetione dei legami con gli USA, sembra aver capito che di non poter agire senza il unto di vista dei militari. Una dinamica simile potrebbe rivelarsi vera rispetto alla legge marziale, e inoltre anche perché la posizione dei militari e non quella di Duterte sembra in linea con la maggioranza della gente.
Secondo le ultime rilevazioni di marzo, il 65% degli intervistati era in disaccordo con l’idea che sarebbe stata necessaria la legge marziale per risolvere “le tante crisi” del paese.
I filippini hanno espresso preoccupazioni sui militari specie sulla corruzione. Furono uno strumento di rimozione di due presidenti eletti nei tre decenni, Marcos ed Estrada.
In entrambi i casi i militari agirono in risposta alle proteste di massa, rifuggendo dal prendere il potere ma aprendo la strada per un ritorno alla democrazia.
Ora, secondo il presidente di Pulse Asia e docente universitario, Ronald Holmes, le forze armate hanno goduto di “una approvazione maggioritaria e fiducia da un bel pò”
I militari diventano di nuovo un attore importante della politica filippina. Ora potrebbe essere un bene che le forze armate filippine si sono professionalizzate, se non fosse per un altro sicuro segno che dice come le istituzioni civili stiano deludendo questa dolente democrazia
Richard Heydarian, NYT