Abbas, immigrato curdo a Bangkok e la Brexit

La libertà di movimento è un diritto umano fondamentale, ma provoca ansie quando a spostarsi sono persone e non soldi e merci

Alcuni anni fa nel mio vicinato, c’era un immigrato curdo. Non un iraniano, o iracheno, o turco, mi diceva, ma curdo, il gruppo etnico apolide incastrato tra nazioni non solidali. Si chiamava Abbas.

Faceva i lavori più strani per sopravvivere, dallo scaricatore al trasportatore al venditore di sigarette. Nonostante la sua giovane età, il suo viso era già segnato da tante lotte, con le loro rughe, linee e cicatrici. Non gli chiesi mai come fosse finito a Bangkok, o se si trovasse qui legalmente, benché tutti noi sapessimo che le frontiere porose delle nazioni moderne, nonostante i controlli ed i pregiudizi, son siano sempre efficaci a mantenere lontano le persone disperate.

cultura dello sfruttamento libertà di movimento

La libertà di movimento è un diritto umano fondamentale, vero? Idealmente è così. Ma il mondo non è un luogo ideale, lo si chieda a Cameron, specialmente un mondo lacerato tra l’inevitabilità dell’apertura e il fascino dell’isolamento.

E’ un mondo dove globalizzazione, internazionalizzazione e mercati comuni ci possono mettere in cammino verso la prosperità, eppure è lo stesso mondo che lascia una interminabile striscia di durezza, diseguaglianze e politiche egoistiche, un terreno di coltura per il fantasma interminabile del nazionalismo.

Lo si chieda di nuovo a Cameron, o si guardi più vicino a casa, ad Aung San Suu Kyi, arrampicata, lo scorso mese, su una folla di migliaia di migranti di Myanmar in Thailandia.

Abbas, il curdo, un giorno se ne andò dal mio vicinato. Nessuno sapeva dove se ne fosse andato. Negli anni scorsi, invece, abbiamo visto i migranti Rohingya.

Il mondo si muove, i soldi girano, le informazioni girano, tutti alla fantasmagorica velocità della tua larghezza di banda. Allora quale forza può impedire alla gente di spostarsi?

Al summit di Bruxelles della Comunità Europea, Cameron ha detto ai capi di stato europei che nella decisione dei britannici di rigettare l’Europa Unita c’erano le ansie fondamentali sulla libertà di movimento.

Credo non lo si debba confondere col razzismo. Il voto della Brexit era stato molto un’espressione delle preoccupazioni economiche, di lavoro, stanchezza dello status quo. Tutto questo è valido in principio, solo che la semplificazione estrema di un si od un no al referendum, quando centinaia di questioni di grande complessità sono tradotti in 0 oppure 1, queste preoccupazioni genuine sono state gettate nel canestro del nativismo e della xenofobia: per esempio l’oltraggiosa dichiarazione del Giorno dell’Indipendenza dei politici dell’estrema destra. Sembrano aver dimenticato quante nazioni hanno conquistato l’indipendenza dai britannici dopo la guerra mondiale.

Cameron ha promesso una veloce repressione sui crimini d’odio, forse motivati razzialmente, che sono spuntati dopo il voto. L’utopia delle frontiere aperte di cui si fregiava l’Europa ha avuto un imprevisto, un risentimento da lungo covato che è stato liberato. Il velocissimo movimento delle informazioni e del capitale è benvenuto finché non comporta il movimento degli esseri umani.

La postmodernità fluida, senza forma ha perso questa battaglia a vantaggio dei valori pre-moderni delle frontiere fisse.

Ma le mancanze dell’apertura non devono diventare il richiamo delle sirene dell’esclusività. Certo si deve analizzare il modo di lavorare dell’Europa, si guardi alla povera Grecia, ma il divorzio Europa Gran Bretagna è un improvviso shock che nessuno riesce ancora a digerire.

In un momento di interconnessione globale, l’isolamento fisico o virtuale è difficile da comprendere per l’Europa, e per quel che conta la Thailandia e forse Myanmar e anche l’Asean.

Ci sono circa tre milioni di emigrati birmani, clandestini e legali, in Thailandia, più altre centinaia di migliaia di Cambogiani e Laotiani. Li possiamo vedere, o forse no, ogni giorno alle pompe di benzina o come donne delle pulizie, e non vediamo la maggioranza di loro lavorare nelle industrie della pesca a Mahachai.

La scorsa settimana quando Suu Kyi era in città, le ONG colsero l’opportunità di proporre una serie di domande che avrebbero garantito un trattamento giusto dei lavoratori birmani, come il diritto ad avere una paga minima e ad avere la libertà di movimento. In altre parole i diritti fondamentali che i lavoratori thai chiedono quando lavorano all’estero; i diritti fondamentali che la minoranza Rohingya continua a chiedere al governo birmano ed ora alla Suu Kyi.

Sulla carta i due governi, thai e birmano, lavorano per migliorare le condizioni dei lavoratori emigrati, che è in un certo senso ci rende più sensibili della disfunzione della Gran Bretagna Europa. Ma anche il contraccolpo popolare contro le “richieste” è stato altrettanto veloce: come si permettono i meschini lavoratori birmani a venire qui e chiedere tutto quello che vogliono?

Razzismo superficiale, nazionalismo radicato o semplici preoccupazioni economiche? Un po’ di tutto forse, e la sfida delle nazioni moderne è di riconoscerle e superarle.

Tutto questo mi riporta alla mente il curdo Abbas, l’apolidia; tutte le frontiere che lo rigettano senza alcuna possibilità se non di infrangerle.

Kong Rithdee, BangkokPost

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