Schiavitù, la schiavitù da debito e lavoro costretto sono da molto tempo la maledizione del Sudestasiatico in tutte le sue ere, dalla pre-coloniale, alla coloniale, a quella del dopo indipendenza.
E lo è anche oggi mentre i paesi più ricchi si fanno sempre più ricchi trattando le persone dei paesi meno fortunati come lavoro a basso costo, ad uso e getta, con meno diritti, spesso costretto a causa del debito, del sequestro dei passaporto e della paura dell’arresto.
I colpevoli principali sono Singapore e la Malesia.
Per anni Singapore è riuscita a nascondere la realtà delle paghe basse e delle condizioni di vita miserevoli di quasi il 30% della forza lavoro con pochi diritti, senza famiglie e che rischiavano di perdere il lavoro immediatamente anche prima che erano riusciti a ripagare il debito nell’arrivare ad ottenere un lavoro a Singapore.
Gli abitanti di Singapore chiudevano gli occhi di fronte a quello che vedevano, mentre gli stranieri continuavano a bersi la propaganda del governo sulla casa dello stato a Singapore e i traguardi sanitari.
Le baracche dei lavoratori stranieri non erano sull’agenda turistica, i tantissimi lavoratori domestici non erano mai intervistati sulle condizioni di vita e sugli abusi sofferti.
Poi arrivò il COVID-19 con il fatto che la stragrande maggioranza dei casi di COVID-19 di Singapore accadevano in quelle alti dormitori affollati ed orrendi nascosti dalla vista pubblica.
La forza di lavoro straniera della repubblica isolana, quando il virus arrivò, ammontava ad oltre 5 milioni di lavoratori, dei quali 200mila dalla Cina, la fonte originale delle infezioni da Coronavirus.
Ora cominciamo a vedere questioni simili in Malesia dove da tempo la forza lavoro del Bangladesh e Indonesia è particolarmente sfruttata per paura dell’arresto e della deportazione, gli strumenti della moderna schiavitù.
Persino la forza lavoro straniera regolare spesso non è nelle condizioni migliori con le loro basse paghe e dopo aver contratto debiti per avere un lavoro tramite l’agenzia o un reclutatore.
Le stime non ufficiale dicono che ci sarebbero in Malesia fino a sei milioni di lavoratori stranieri, il 18,6% della popolazione totale del paese di 32,6 milioni di persone. La forza lavoro straniera legale è di 2,27 milioni di lavoratori mentre il resto, che va dai 2.5 ai 3,37 milioni di lavoratori, è clandestina.
I lavoratori stranieri rappresentano qualcosa tra il 31 e 40% della forza lavoro malese di 15,3 milioni di persone, impiegata in primo luogo nei lavori cosiddetti 3D, sporchi pericolosi e difficili, nelle piantagioni, agricoltura, costruzioni, manifattura e servizi.
Altri focolai di COVID sono associati alle costruzioni dove grandi masse di lavoratori vivono in condizioni primitive.
Le cameriere straniere sono abusate e violentate, i lavoratori perdono arti in macchine non sicure, i lavoratori lavorano troppo e pagati poco, senza giorni di riposo, con i passaporti confiscati al loro arrivo, guardati male come cittadini di seconda classe o esseri subumani.
Quindi dopo il caso del COVID-19 nei dormitori di Singapore, era solo questione di tempo anche per la Malesia dover vedere la stessa situazione.
Nel giro di qualche giorno è spuntato fuori un focolaio di 2524 casi vicino alle imprese della Top Glove a Klang, dei quali 2360 erano “stranieri” e solo 164 cittadini malesi.
Da produttore di guanti di lattice usati nell’industria sanitaria, Top Glove guidata dal fondatore Lim Wee-chai, è uno dei maggiori beneficiari al mondo della pandemia da Covid. Il prezzo delle sue azioni è cresciuto del 500% in un anno e la produzione ha subito una crescita colossale.
Anche prima però la Top Glove era accusata di abusare del lavoro dell’emigrazione.
Un rapporto del 2019 l’accusava di lavoro forzato, tasse di reclutamento che creavano legame da debito, sequestro dei passaporti per prevenire le fughe e condizioni di vita scioccanti.
Rapporti analoghi del 2020 costrinsero le dogane americane ad imporre un divieto di importazione dalle imprese della Top Glove.
Ma queste denunce fanno poco per restringere la fame di alcuni capitalisti e la complicità di alcuni rappresentanti Malay.
A Singapore l’epidemia massiccia di inizio anni attirò l’attenzione sulle condizioni di vita nei dormitori e come l’epidemia ha colpito questi lavoratori, non la popolazione della città.
Questo scandalo potrebbe portare a dei miglioramenti delle condizioni dei dormitori, gestiti come imprese private, ma non cambierà molto l’attitudine generale dei cittadini e degli stranieri residenti più fortunati.
L’attitudine generale, a Singapore come in Malesia, è che quei lavoratori senza diritti e pagati male sono fortunati ad avere un lavoro.
Tuttavia è un’attitudine deleteria che uno stato si affidi così tanto per il conforto dei propri cittadini sulle spalle dei non cittadini.
Dietro questa attitudine c’è un’alta oscura realtà che riflette le attitudini degli asiatici dalla pelle chiara verso i loro fratelli più oscuri.
E’ il momento di un movimento BLM, Conta la vita della gente dalla pelle bruna, per scuotere il Sudestasiatico insieme a Cina ed Hong Kong che hanno oltre 400 mila lavoratori domestici per il 70% proveniente dalle Filippine dalla pelle bruna.