La Malesia sta vivendo una fase molto critica della sua giovane storia con forti tensioni razziali che percorrono il paese.
E’ una nazione molto attiva economicamente che si è data l’obiettivo di divenire una nazione sviluppata del primo mondo per il 2020.
E’ allo stesso tempo travagliata da tensioni razziali e religiose attizzate dagli stessi partiti al governo che vedono minacciato il loro potere incontrollato. L’agitazione dell’odio razziale e religioso, il ridimensionamento della tolleranza sono alcuni degli strumenti che l’attuale governo si è dato per impedire l’erosione elettorale da parte dei partiti di opposizione, oltre al discredito del principale leader dell’opposizione, Anwar Ibrahim.
Le tensioni razziali malesi ed il loro costo sociale ed economico
“Un crogiolo di razze e religioni vivo e in ascesa, dove Malay, Indiani, Cinesi ed tanti altri gruppi etnici convivono in pace ed armonia” è come l’ente nazionale del turismo malese promuove il paese. Il suo primo ministro Najib Tun Razak ha fatto risuonare questa visione nel suo annuncio del proprio tema di governo, One Malaysia. “A rendere la Malesia unica” diceva Najib “è la diversità della nostra gente. Lo scopo di One Malaysia è di preservare e migliorare questa unità nella diversità che è sempre stata la nostra forza e resta la nostra speranza migliore per il futuro”.
Se davvero Najib punta a raggiungere questo obiettivo, si rende necessario per prima cosa uno sguardo allo specchio. Malgrado la nuova frase ad effetto del governo, le tensioni razziali e religiose sono più alte oggi del momento in cui Najib si insediò nel 2009. Infatti sono state le peggiori di sempre sin dal 1969 quando almeno 200 persone morirono negli scontri razziali tra la maggioranza malay e le comunità di minoranza cinese. Il deterioramento recente è causato dal fatto inquietante che i capi del paese tollerano e, in alcuni casi provocano, un settarismo etnico attraverso parole ed azioni.
Per esempio, quando l’arcivescovo cattolico di Kuala Lumpur invitò il primo ministro per la giornata della casa aperta di Natale lo scorso dicembre, Hardev Kaur, aiutante di Najib, disse che si sarebbe dovuto rimuovere le croci cristiane. Non ci poteva essere alcun canto o preghiera per non offendere il primo ministro che è musulmano. La signora Kaur dopo insistette che “aveva chiarito che era una richiesta e non un ordine” come se qualunque malese potesse dire no ad una richiesta proveniente dall’ufficio del Primo Ministro.
Abbondano esempi di simile mancanza di sensibilità. A settembre 2009 il ministro degli interni Hishammuddin Onn si incontrava con i manifestanti che avevano portato la testa decapitata di una vacca, animale sacro per gli Induisti, ad un tempio indiano. Allora il ministro tenne una conferenza stampa per difendere le loro azioni. Due mesi dopo il ministro della difesa Ahmad Zahid Hamidi riferiva in parlamento che una ragione per cui le forze armate sono a stragrande maggioranza malay è che gli altri gruppi etnici hanno “un basso spirito patriottico”. In seguito chiese scusa dopo tanta pressione pubblica.
Il principale giornale di lingua malay, Utusan Melayu, stampa quello che il capo dell’opposizione Lim Kit Siang definisce la dose giornaliera di falsità che accresce l’odio razziale. Utusan, che è di proprietà del partito politico di Najib, ha affermato che l’opposizione vuol fare della Malesia una colonia della Cina ed abolire la monarchia Malay. Attacca quotidianamente i politici malesi cinesi giungendo a suggerire persino che uno dei loro parlamentari Teresa Kok dovrebbe essere uccisa.
Questa costante erosione della tolleranza è più di una sfida politica, ma è anche un problema economico.
L’economia malese, che un tempo era una delle stelle del mondo in via di sviluppo, si è comportata peggio di quanto ci si poteva aspettare per lo scorso decennio. Per poter giungere al suo ambizioso obiettivo di diventare nazione sviluppata per il 2020, la Malesia ha bisogno di crescere del 8% annuo nel decennio che richiederebbe maggior investimenti privati da fonti internazionali e nazionali, abilità umane migliorate e una significativa riforma economica. Le tensioni religiose e razziali si mettono però di traverso.
Tra il 2007 e 2009 almeno 500 mila malesi hanno lasciato il paese, raddoppiando il numero di professionisti malesi che vivono all’estero. Sembra che i più abili tra le comunità cinese e malese, stanchi di essere trattati come cittadini di seconda classe nel proprio paese ed impossibilitati a competere sullo stesso piano sia nell’istruzione, che negli affari o nel governo. Molti di questi emigranti, come pure gli studenti malesi che studiano all’estero e che non tornano mai più (per lo più ancora cinesi ed indiani), hanno affari, hanno ditte di ingegneria e abilità scientifiche di cui la Malesia ha bisogno per il proprio futuro. Hanno anche la scaltrezza linguistica e culturale per migliorare i legami economici con i due maggiori mercati asiatici, India e Cina.
Naturalmente si potrebbe discutere se la discriminazione non sia una cosa nuova per questi cinesi e indiani. Le politiche di azione affermativa per la sua maggioranza malay, che dà loro preferenza in ogni cosa dall’allocazione delle azioni agli sconti per la casa, è stata impiegata da decenni. Cosa allora porta via le minoranze etniche ora?
Per prima cosa queste minoranze sentono di aver perso una voce nel proprio governo. I partiti politici cinese ed indiano nelle coalizioni di governo si suppone debbano proteggere gli interessi delle loro comunità, ma nei pochi anni scorsi sono stati neutralizzati. Restano largamente silenziosi di fronte agli insulti razziali sempre più numerosi rivoltegli dai loro partner politici malay. Oggi oltre il 90% degli impiegati, della polizia, dei militari, lettori universitari e diplomatici all’estero sono malay. Persino l’agenzia TalentCorp, creata nel 2010 per incoraggiare i malesi residenti all’estero a tornare a casa, è guidata da un Malay con duna direzione interamente Malay.
Seconda cosa, sono bloccate la riforma economica e gli aggiustamenti del governo alle politiche di azione affermativa. Sebbene Najib abbia offerto un anno fa la speranza di un cambiamento con il suo Nuovo Modello Economico, che prometteva una politica di azione inclusiva affermativa che nelle parole di Najib sarebbe stata “amica del mercato, legata al merito, trasparente e legata ai bisogni” , non è riuscito a dare seguito alle proprie parole. La causa è l’opposizione da parte dei gruppi di estrema destra Malay, come Perkasa, che credono che un movimento verso la meritocrazia e la trasparenza minacci quelli che loro definiscono i “diritti Malay”
Ma uno stallo sulle riforme significa un’ulteriore perdita in competitività e una crescita più lenta. Significa anche che continueranno il favoritismo ed i contratti senza gara che favoriscono chi è ben connesso. Tutto ciò manda ai giovani malesi segnali scoraggianti che indipendentemente da quanto studino o lavorino avranno sempre dei tempi duri per andare avanti.
Najib forse non crede di fatto molto alla retorica che viene dal suo partito e dai suoi rappresentanti di governo, ma lo tollera poiché ha bisogno di raggiungere la sua base elettorale Malay. E’ politicamente conveniente in un momento in cui il suo partito, a memoria, si trova di fronte alla sfida più seria dell’opposizione, specialmente se l’opposizione sfida il governo sulla politica etnica e le conseguenze economiche di essa. Un giovane capo dell’opposizione parlamentare, Nurul Izzah Anwar, figlia del più famoso Anwar Ibrahim, ha proposto un dibattito nazionale su quello che lei ha definito le visioni alternative del futuro della Malesia, se deve essere una nazione Malay o una nazione malese. Per questo si è guadagnata lo scorno del gruppo Perkasa, mentre il governo suggeriva che la sua affermazione era “sediziosa”.
Il governo malese potrebbe trovare l’espediente politico di rimestare nella giara delle tensioni razziali e religiose ma il suo opportunismo comporta un costo economico. I suoi cittadini continueranno a votare scappandosene all’estero portandosi appresso denaro e talento. E gli investitori stranieri, che sono preoccupati con l’instabilità razziale e l’assenza di riforme significative continueranno a guardare altrove per i loro affari.
John R Mallot, WSJ