Una corte marziale birmana ha condannato tre militari birmani per il massacro “non intenzionale” di civili nel villaggio di Gu Dar Pyin nel Rakhine birmano del 2017,
Allora dopo le azioni del gruppo insorgente ARSA decine di migliaia di Rohingya furono uccisi, stuprati, torturati e feriti ed altre 740 mila fuggirono nel vicino Bangladesh.
Di questo processo non si conoscono né i condannati, né le sentenze inflitte, né i testimoni del processo, né gli avvocati, ed è stato condotto in assoluta segretezza, ma un portavoce dei militari, Tun Tun Nyi, fa sapere all’agenzia spagnola EFE , dopo l’emissione della sentenza:
“I loro crimini sono stati commessi mentre servivano a proteggere la difesa dello Stato, e siamo sicuri che non li abbiano commessi intenzionalmente”. Tun Tun Nyi ha giustificato la segretezza che circonda il processo perché “pubblicare i nomi dei condannati, i gradi e le frasi avrebbe influenzato il morale dei loro colleghi”. Silenzio invece dalle autorità civili birmane.
Secondo le indagini dei militari a Gu Dar Pyin i militari avrebbero ucciso dieci abitanti il 27 di agosto, ma la missione di accertamento dell’ONU dichiarò che i militari avrebbero scavato diverse fosse comuni dove furono sepolti almeno 243 abitanti, stando alle dichiarazioni dei sopravvissuti intervistati.
La commissione di inchiesta dell’ONU evidenziò altri possibili massacri a Maung Nu e Chut Pyin.
Questo è il secondo processo, iniziato a novembre 2019 dopo che i militari scoprirono che le procedure non sarebbero state applicate alla lettera a Gu Dar Pyin, contro del proprio personale.
L’esercito del Tatmadaw, e non un tribunale civile, condusse contro propri uomini il processo del massacro ad Inn Dinn in cui alcuni militari furono condannati per il massacro di dieci civili. Il massacro fu svelato da un’indagine di due coraggiosi giornalisti birmani, Wa Lone e Kyaw Soe Oo, poi condannati per furto di documenti riservati e rimasti per 18 mesi nelle carceri birmane. I militari condannati sono già stati perdonati e sono in libertà.
Se si considera la strenua difesa di Aung San Suu Kyi davanti alla Corte di Giustizia Internazionale a L’Aia della capacità dei propri militari di punire quelle operazioni singole perpetuate a danno dei civili e che è possibile che ci sia stato un uso spropositato della forza durante le operazioni di rastrellamento, questo risultato è davvero molto poco.
In quella testimonianza al ICJ la Birmania negò che le proprie truppe commisero il genocidio né che avessero un intento genocida e indicò le proprie corti marziali come esempi che mostrano che il paese può rispondere di questi crimini senza l’interferenza internazionale. La ICJ poi condannò la Birmania a fare di tutto per proteggere la comunità Rohingya con un cronoprogramma da rispettare.
La Birmania, che cambiò anni fa il proprio nome in Myanmar, si trova accusata anche davanti alla ICC, tribunale Penale Internazionale, di crimini di guerra ed ad un tribunale argentino per espulsione di massa dei Rohingya in risposta agli attacchi dei militanti Rohingya a posti di polizia.
Per Aye Lwin, capo di una comunità musulmana che sarebbe stato ammesso a seguire il processo, questa sentenza è sempre meglio di nulla, del rischio di non aver nessuno che risponda dei crimini.
“Hanno ammesso che è accaduto il massacro” ha detto ad RFA. “Come ho osservato le procedure, hanno preso dei passi forti e concreti.”
Secondo il capo comunità i militari condussero un’inchiesta prima delle audizioni e della presentazione delle prove a sostegno delle accuse.
“Dovremmo prenderlo come un segno positivi, ma sarebbe stato molto meglio se fossero stati trasparenti” ha detto Aye Lwin che un tempo partecipò ad una commissione consultiva del governo birmano sulle divisioni etniche e religiose nel paese.
Che questa sentenza di condanna della corte marziale birmana possa essere un esempio di fare giustizia ne sono però convinti in pochi tra le ONG dei diritti umani che sostengono che il processo è stato fortemente segnato da errori procedurali e mancanza di trasparenza.
Al processo non hanno potuto partecipare oltre ce gli abitanti dei villaggi ed altri legati all’evento specifico, ha detto il parlamentare di Buthidaung Aung Thaung Shwe che è stato invitato a partecipare senza però potersi recare.
Secondo l’avvocato dei diritti umani Kyee Myint, si devono rendere pubblici tutti i dettagli del processo perché i militari devono presentare informazioni credibili alla comunità internazionale.
“Secondo la legge il processo deve essere condotto in modo trasparente” ha detto a RFA Kyee Myint. “Il mondo intero osserva questo processo e non deve basarsi su segreti militari”
La mancanza di trasparenza del processo è stata denunciata anche da Fortify Rights secondo cui “l’intero processo è stato fatto senza alcuna trasparenza”.
Amnesty International ha definito allarmante la mancanza di trasparenza della corte marziale birmana nel caso del massacro di Gu Dar Pyin
“Processi a porte chiuse fatti in segreto e segnati da una mancanza di indipendenza nel sistema giudiziario militare non sono il modo di porre fine all’impunità militare in Myanmar” ha dett Ming Yu Hah di Amnesty International birmana.
“Questo processo fatto da una corte marziale non fa alcuna giustizia” dice Khin Maung, militante che vive in un campo dei rifugiati Rohingya nel sudest del Bangladesh, che sostiene che i soldati dovevano essere processati da una corte civile. “Solo allora possiamo vedere che è stata fatta giustizia”
Il presidente di una organizzazione Rohingya a Londra, Tun Khin, non ha alcuna fiducia nella sentenza di condanna dei soldati: “Queste corti marziali militari sono un’azione superficiale per alleviare la pressione internazionale. Non ci fidiamo della corte marziale o del sistema giudiziario birmano nel complesso” Secondo Tun Khin solo una commissione internazionale indipendente che operasse in Birmania potrebbe rivelare quanto estesi siano stati i crimini contro i Rohingya.
I militari birmani a febbraio scorso dissero che avrebbero indagato quanto trovato da una commissione governativa birmana sui massacri a Maung Nu e Chut Pyin dove si crede che circa 300 civili siano stati uccisi dai militari durante le operazioni di rastrellamento.
Se queste indagini e possibili processi saranno condotti come sono stati condotti i processi per Inn Dein e Gu Dar Pyin, con condanne fantasma emesse nella assoluta mancanza di trasparenza, è improbabile che la comunità internazionale ed i suoi organi giuridici massimi potranno esimersi dal proseguire nei processi per crimini di guerra e genocidio contro la Birmania, perché questi processi a cui seguono i perdoni e la liberazione degli accusati sono più o meno una farsa.
E la farsa è ancora più atroce perché probabilmente le stesse operazioni di rastrellamento continuano tutt’oggi a danno della popolazione civile buddista del Rakhine. In uno stato isolato dal mondo esterno e dal resto del Myanmar, dove Internet è chiuso da un anno, prosegue la guerra civile contro le forze dell’addestrato e forte Arakan Army che combatte per l’autonomia dello stato Rakhine.