Mentalità genocida dei militari birmana e il processo a L’Aia

Nella sua difesa del Myanmar dalle accuse di genocidio nella Corte Internazionale di Giustizia a L’Aia della scorsa settimana, Aung San Suu Kyi era in difficoltà a presentare la complessità del conflitto etnico nel Rakhine e gli sforzi incerti del paese per applicare il proprio processo penale e la giustizia militare.

aung san suu kyi

Il capo politico di fatto e ministro degli esteri del Myanmar era imbarazzata dalla propria incapacità a dare una spiegazione che sarebbe potuta essere persuasiva: le atrocità commesse nel 2017 contro i Rohingya musulmani del Rakhine non erano proprio una campagna eccezionale di genocidio quanto piuttosto la normale pratica dell’esercito di Myanmar che, nel linguaggio militare coll’acronimo POS ovvero Procedure Operative Standard, di solito non ha mai attratto l’attenzione internazionale né tanto meno la rabbia internazionale.

Le specifiche nauseanti delle POS del Tatmadaw nel Rakhine sono state descritte nel dettaglio in rapporti voluminosi dalla missione ONU e dalle ONG internazionali. Alcune sono state riportate dagli avvocati del Gambia che ha lanciato l’accusa di genocidio alla Corte.

Le operazioni di rastrellamento dell’area dell’esercito, chiaramente mirate a contrastare varie centinaia di ribelli Rohingya male armati, implicarono omicidi di massa di oltre 5000 civili, stupri di gruppo sistematici e l’incendio di centinaia di villaggi portando circa 740 mila rifugiati a riversarsi nel vicino Bangladesh ad agosto 2017.

Comunque, mentre i giudici della corte lavorano sulla questione specifica di un presunto genocidio o il bisogno di misure temporanee per impedire altre violenze, essi e forse la stessa Aung San Suu Kyi avranno bisogno di confrontarsi con le questioni enormi che vanno ben oltre i dettagli di quanto accaduto e quello che fu o non fu ordinato a livello di comandi regionali o nazionali.

Come è accaduto che il Tatmadaw, un agente di stato ben organizzato e relativamente moderno con una tradizione forte di disciplina e presunta professionalità militare, sia riuscito a tirare il proprio paese sotto la luce del sistema giudiziario internazionale?

E quali patologie particolari sono sotto la triste tendenza dei militari di Myanmar, Tatmadaw, alla violenza sproporzionata e al prendere di mira deliberato dei civili o come la definì un militare straniero di stanza a Yangon ad una controinsorgenza uscita fuori dall’età della pietra?

All’interno di un contesto storico, tre fattori hanno giocato ognuno a differenti livelli ed hanno contribuito a forgiare un esercito prono in modo unico ad un quadro di abusi persistenti e periodici massacri che culminarono negli orrori del Rakhine.

Il più immediato di questi elementi, spesso trascurato dagli esterni, è il modo in cui le unità di combattimento di prima linea dei militari di Myanmar sono stati stancati e brutalizzati da una guerra infinita di settantanni.

A livello globale nessun altro esercito è impegnato, da così tanto tempo, in missioni di guerra continue. E nel caso birmano queste operazioni si sono svolte contro nemici interni in conflitti di guerriglia dove la differenza tra combattenti e civili è perennemente offuscata.

L’origine del Tatmadaw risale alla II guerra mondiale e agli addestramenti dell’esercito giapponese che non prestava attenzione alla conferenza di Ginevra.

Nel giro di pochi mesi nel dopoguerra birmano del 1948 l’esercito ridotto a sei battaglioni, circa 3000 soldati, fu buttato direttamente nella controinsorgenza contro i comunisti ed i ribelli Karen nel cuore della Birmania centrale.

Dalla metà degli anni 70, il centro delle operazioni di un esercito più grande e fiducioso si spostò nelle giungle e nelle montagne dei confini dove tantissime minoranze etniche armate, come Shan, Karen, Mon, Kachin e Rakhine, lottavano per l’indipendenza o l’autonomia dal governo militare centralizzante.

Le piccole guerre del Tatmadaw erano condotte da battaglioni di fanteria male equipaggiate e sempre sotto numero che operavano col sostegno occasionale dell’artiglieria alla fine di linee logistiche povere che si affidavano ad animali da trasporto e da portatori umani. L’evacuazione dei feriti era rara e rappresentava una sfida corrosiva costante.

Nonostante la modernizzazione degli equipaggiamenti ed il sostegno dall’aria, le ostilità rapidamente crescenti nel Myanmar del nord dal 2011 e nel Rakhine dalla fine 2018, hanno solo esacerbato i problemi delfronte a causa delle alte perdite, delle rotazioni estese e del cattivo morale.

Le perdite dell’esercito non sono mai rese pubbliche ma le stime lasche degli analisti parlano di almeno 3000 militari di Myanmar uccisi in operazioni di combattimento dal 2011.

Il grosso delle perdite è sofferto dai battaglioni della riserva mobile delle divisioni di fanteria leggera, LID, trasportate di continuo da un fronte all’altro, mentre il quartier generale di Nawpyidaw ha problemi nel rispondere alla crescita delle attività di insorgenza in tutto il paese.

I rapporti del 2015 uscenti dalla contestata regione del Kokang dello stato Shan indicavano che il 33° battaglione leggero aveva avuto perdite fino al 20% in alcune azioni. Per il 2016 la divisione era stata spostata nello stato Kachin.

Si potrebbe davvero discutere di come tanti battaglioni LID siano più disumanizzati in modo sistematico che induriti dalle battaglie. Non fu una coincidenza forse allora che ad agosto 2017 elementi del 33° battaglione si fecero strada con gli artigli per infamarsi di alcune delle barbarie inflitte ai Rohingya.

Ad un altro livello, la patologia del comportamento del Tatmadaw è stata condizionata da uno sciovinismo etnico radicato nel profondo. Nonostante problemi continui di pochi coscritti e una storia di arruolamenti di soldati minorenni, l’esercito è restato una forza di volontari reclutati per lo più tra la comunità maggioritaria Bamar che rappresenta il 68% della popolazione di 52 milioni di persone secondo il censimento ufficiale.

L’esercito è guidato da ufficiali quasi tutti Bamar, rappresentanze delle elite della razza nazionale principale che gode un percorso relativamente garantito al privilegio sociale ed economico.

Con questo sfondo etnico le guerre del Tatmadaw sono state fatte essenzialmente come campagne di pacificazione coloniale interna secondo la visione centralizzante di un Myanmar birmanizzato.

Le operazioni dell’esercito e le attitudini dietro di loro, misurate sui ribello etnici di minoranze e sulle basi di sostegno civili, sono infuse di un senso potente della superiorità etnica, culturale e linguistica Bamar. Il rovescio è il disprezzo e l’abuso delle minoranze.

Dagli anni 80, le operazioni contro i ribelli Karen, Shan e Kachin hanno coinvolto un ricorso ben documentato all’incendio dei villaggi, lo stupro delle donne, il reclutamento forzato di uomini usati come portatori e dragamine umani e al respingimento di tantissimi rifugiati oltre i confini di Cina e Thailandia.

Ma il peggio dell’animo razzista dell’esercito di Myanmar è stato riservato senza dubbio per i Rohingya, disumanizzati in modo sistematico sia come immigrati Bengali senza diritto alla cittadinanza birmana e, a un livello più viscerale, come avanguardie immaginate di una cospirazione musulmana per sovvertire il patrimonio buddista di Myanmar.

Infine, e forse in modo più importante, il Tatmadaw ha sviluppato un senso incrollabile di essere indispensabile guardiano dell’integrità territoriale e del destino della nazione.

In questo ambito non è proprio unico perché nel ASEAN una simile missione ispira i militari thailandesi e più lontano il Pakistan dove è stata coniata la frase “talvolta un esercito ha un paese piuttosto che quel paese ha un esercito”.

I militari di Myanmar hanno meno sfide civili delle loro controparti thailandesi e sono stati pronti a rispondere all’occorrenza con maggiore efferatezza. Dal golpe del 1962 quando i militari di Myanmar presero il controllo del governo per la prima volta, i militari esistono come una casta separata, sdegnosa dei politici, sprezzante delle minoranze e gelosamente possessivi delle proprie prerogative sociali ed economiche.

Socialmente lo status dei militari come casta esclusiva si è rafforzata con la sua comprensibile mancanza di volontà a trasformarsi in un regime di reclutati che richiederebbe l’ammissione a breve termine di un grande numero di civili Bamar come anche di truppe potenzialmente inaffidabili delle minoranze di comunità etniche.

Nel frattempo sul piano politico, dietro la foglia di fico delle elezioni e del governo quasi civile, la costituzione del 2008 dei militari di Myanmar assicura una presa assoluta indefinita sul potere reale che è stato sfidato solo di recente in modo timido dal NLD di Aung San Suu Kyi.

Il monopolio tradizionale sul potere politico ed il privilegio sociale si è tradotto in modo prevedibile in una cultura pervasiva di impunità sui campi di battaglia ed oltre. Come dimostrato nella repressione spietata delle proteste democratiche del 1988 e 2007, l’esercito non ha esitato a girare le armi sui civili Bamar per le strade delle città del Myanmar.

Resta una questione aperta se l’affronto di essere difesi nell’onore in terra straniera da un politico improvvisamente popolare che hanno visto sempre con profondo sospetto spingerà la gerarchia del Tatmadaw ad una profonda introspezione.

Forse il riferimento di Suu Kyi al processo della giustizia militare, insieme al bisogno di cercare vittime sacrificali, potrebbe vedere un’accelerazione di alcune indagini e dei processi in corte marziale. In genere l’eredità di sette decadi di guerra e cultura potente di eccezionalità dei militari vanno contro una riforma reale in un futuro anche di medio termine.

Nel corso dovuto la corte internazionale di giustizia dirà se le atrocità inflitte ai Rohingya rappresentano genocidio. Quello che ora non è in dubbio è che la campagna di violenza del Tatmadaw, benché senza precedenti per vastità e brutalità, è radicata nei riflessi istituzionalizzati inculcatisi nei decenni.

Anthony Davies, Asiatimes.com

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