I metodici e radicali stupri delle donne Rohingya in Birmania

Come spesso accadeva, i soldati arrivarono molto dopo il tramonto.

Era giugno ed i nuovi sposi dormivano nella loro casa, circondata dai campi di grano che coltivavano nella Birmania occidentale.

Senza bussare sette soldati si buttarono dentro entrando nella loro stanza da letto.

La donna Rohingya di cui diamo solo l’iniziale F sapeva abbastanza per essere terrorizzata. Sapeva degli attacchi dei militari contro i villaggi Rohingya, parte di quello che l’ONU ha definito pulizia etnica. Aveva sentito solo dei giorni prima che i soldati avevano ucciso i suoi genitori e che era sparito suo fratello.

donne rohingya
AP Photo/Wong Maye-E

Questa volta, dice F, erano venuti per me.

Gli uomini legarono il marito con delle funi, le strapparono la mantellina dal capo che le legarono alla bocca. Le tolsero i gioielli strappandole i vestiti. Poi la gettarono per terra.

Ed il primo soldato cominciò a stuprarla.

La ragazza provò a divincolarsi dall’uomo ma altri quattro uomini la tenevano giù e la colpivano con un bastone.

Fissava presa dal panico suo marito che guardava la scena impietrito Finalmente riuscì liberarsi la bocca ed a gridare.

Poi F vide come un soldato sparò un colpo al petto del marito a cui era sposato da appena un mese. Un altro gli tagliò la gola.

La sua mente si fece confusa. Quando i soldati ebbero finito, tirarono il suo corpo nudo fuori della casa e appiccarono il fuoco alla capanna di bambù.

Passarono due mesi prima di capire che la sua miseria non era terminata: era rimasta incinta.

Lo stupro delle donne Rohingya da parte delle forze di sicurezza birmane è stato radicale e metodico, come risultato delle interviste condotte a 29 donne e ragazze, di età compresa tra 15 e 35 anni, scappate nel vicino Bangladesh.

Queste sopravvissute di vari campi differenti sono state intervistate separatamente e per esteso. Provenivano da vari villaggi dello stato Rakhine d hanno descritto gli assalti tra ottobre 2016 e metà settembre.

Poiché ai giornalisti stranieri è vietato entrare nella regione dei Rohingya nel Rakhin, è quasi impossibile verificare in modo indipendente ogni denuncia di ogni donna. Tuttavia c’era una disgustosa ripetizione delle storie, con differenti accadimenti, le uniformi degli assalitori e i dettagli degli stupri.

Le testimonianze rafforzano la tesi dell’ONU di un sistematico impiego dello stupro da parte delle forze armate birmane, un mezzo di terrore calcolato, mirato a sterminare la popolazione Rohingya.

Benché i militari birmani non abbiano dato alcuna risposta alle richieste di commenti, si sa che un’inchiesta interna militare ha concluso che non si è avuto alcun assalto. Quando i giornalisti hanno chiesto delle accuse di stupri in occasione dei viaggi organizzati dai militari nel Rakhine a settembre, il ministro per gli affari di frontiera, un militare, ha risposto: “Queste donne reclamavano di essere state stuprate ma guardatele. Pensate che siano tanto attraenti da stuprarle?”

I dottori e chi lavorava negli aiuti dicono di essere scioccati dal numero soltanto degli stupri e dal sospetto che si siano fatte avanti solo una parte delle donne. I dottori di Medecins Sans Frontieres hanno trattato 113 casi di donne sopravvissute ad una violenza sessuale, delle quali un terzo non hanno 18 anni. La più giovane solo 9 anni.

Per l’ONU i Rohingya sono la minoranza più perseguitata al mondo mentre la Birmania nega loro cittadinanza e diritti umani. Centinaia di migliaia di loro vivono in tende infuocate nel Bangladesh dove l’aria soffocante puzza di escrementi per la mancanza di latrine e del fumo di legna per cuocere quel poco da mangiare che c’è.

Ogni donna ha descritto attacchi che coinvolgevano gruppi di uomini dell’esercito birmano spesso accoppiato ad altre forme di estrema violenza. Quasi ogni donna ha detto che i loro assalitori indossavano uniformi verde scuro in stile militare oppure le mimetiche. Una sola donna ha descritto chi l’ha attaccata come vestito in abiti civili ma i vicini lo hanno identificato come proveniente da un posto militare locale. …

L’attacco più comune descritto era come quello di F. In molti altri casi le forze di sicurezza circondavano il villaggio, separavano gli uomini dalle donne che venivano portate in altri posti per essere stuprate in gruppo.

Le donne dicevano di aver visto i figli trucidati davanti a loro, i mariti picchiati e uccisi. Parlavano di seppellire i loro cari nell’oscurità e di aver lasciato i corpi dei bambini dietro. Del dolore lancinante degli stupri che sentivano come se non sarebbero finiti mai, e dei viaggi lunghi a piedi verso il Bangladesh ancora sanguinanti ed zoppe.

Parlavano e parlavano, le parole che uscivano da molte di loro come scoppi frenetici, torturati.

stupro di donne Rohingya
foto di Wong Maye-E

N, che racconta di essere sopravvissuta ad uno stupro ma di aver perso il marito, il paese e la pace, parla perché c’è pochissimo altro che può fare e perché spera che ci sia qualcuno ad ascoltarla.

Due mesi dopo che vennero con calma nella notte per F, vennero baldanzosi di giorno per K.

Era fin agosto, dice, pochi giorni dopo che l’insorgenza Rohingya avevano attaccato vari posti di polizia nel Rakhine settentrionale. Le forze di sicurezza risposero con una rapida ferocia da lasciarsi dietro centinaia di morti e tantissimi villaggi bruciati, dicono i gruppi dei diritti umani.

Nella loro casa K e la sua famiglia si sedevano per la colazione. Dopo appena il primo boccone di riso udirono le grida provenire dagli altri villaggi: arrivano i militari.

Suo marito ed i suoi figli più grandi serrarono la porta fuggendo nelle alture vicine.

K però era incinta di 9 mesi, con i piedi gonfi e due piccolini atterriti le cui gambette non potevano mai superare il lungo passo dei soldati. Non aveva un posto dove nascondersi, né il tempo per pensare.

La porta si aprì con un colpo. Gli uomini attaccarono.

C’erano quattro, pensa K, forse cinque, tutti in mimetica. I suoi figli cominciarono a piangere e poi furono lasciati scappare via dalla porta.

Non ci fu grazia per lei. La afferrarono e la buttarono sul letto. Le strapparono gli orecchini, l’anello del naso e la collana. Trovarono il denaro che si era nascosta nella blusa per aver venduto la mucca della famiglia. Le strapparono i vestiti e la legarono mani e piedi con le funi. Quando provava a resistere la soffocavano. E poi cominciarono a stuprarla.

Era troppo terrorizzata per muoversi. Un uomo le teneva un coltello davanti agli occhi, un altro una pistola al petto. Un altro la penetrò con la forza. Quando il primo finì, si cambiarono di posto e ricominciò la tortura. Quando il secondo finì fu la volta del terzo a stuprarla.

Per tutta la sua agonia non pensava ad altro che al proprio figlio nel grembo, a poche settimane dall’uscire in un mondo che non lo voleva perché era un Rohingya.

Cominciò a sanguinare. Svenne.

Quando si riebbe, la zia era lì piangendo a slegarla. L’anziana donna le fece il bagno, la vestì e le diede un panno caldo per le gambe doloranti.

Quando suo marito tornò a casa, era furioso: non solo contro chi l’aveva stuprata ma anche per lei.

Perché domandava, non era fuggita via?

Era incinta e non riusciva a correre, gli rispose. Eppure lui la accusò dell’assalto minacciando di abbandonarla perché, così le disse, un non musulmano l’aveva stuprata.

Per paura che gli uomini ritornassero, con la famiglia fuggì alla casa del padre sulle colline attorno al villaggio. Quando videro i soldati bruciare le case in basso capirono che dovevano andarsene in Bangladesh.

K era troppo dolorante per camminare. Il marito e il fratello lo posero su una lettiga fatta alla meglio con una coperta ed un legno, trasportandola per giorni. Lì dentro pianse per il bambino che temeva fosse morto.

Qualche giorno dopo quanto accaduto a K, dieci soldati giunsero da R. Tredici anni appena, ma aveva già imparato ad aver paura dei soldati.

I genitori le avevano messa in guardia a stare lontano da loro, eppure suo padre fu il primo a cadere preda della loro ira. Un anno prima, racconta R, i soldati lo uccisero con un coltello nella testa.

La famiglia di Y non aveva alcun posto dove andare e rimasero nel villaggio. R si industriò ad imparare l’arabo, mentre accudiva polli e pulcini ed aveva cura dei suoi fratellini.

E poi un giorno di fine agosto, dice R, i soldati si presentarono alla casa. Le presero i fratellini, li legarono ad un albero fuori e cominciarono a picchiarli. R cercò di scappare dalla porta ma gli uomini la presero.

Il suo corpo era quello di un’adolescente, con l’andatura allampanata come un bambino. Ma la sua gioventù non riuscì a proteggerla.

R si dibatté contro gli uomini ma la trascinarono fuori dalla casa fino a tirar la pelle dalle ginocchia. Gli uomini la legarono a due alberi. Le strapparono gli orecchini e i braccialetti, le strapparono i vestiti.

R urlò loro di fermarsi. Le sputarono. E poi il primo uomo la stuprò. Raggelò. Era vergine. Il dolore era atroce. Le violenze durarono ore. Ricorda tutti e dieci gli uomini che la violentarono prima di svenire.

Uno dei fratelli maggiori la ritrovò per terra sanguinante.

I due fratellini non si trovavano, ma sua madre non aveva tempo di cercarli. Sapeva che doveva portare la figlia oltre frontiera da un dottore in fretta per avere le medicine ed impedire la gravidanza. R era appena cosciente. I fratelli la trasportavano per le colline ed i campi verso il Bangladesh. La madre li seguiva, terrorizzata per la figlia, per il tempo che correva via.

Che la famiglia di R abbia cercato un trattamento medico è del tutto un’anomalia. Nonostante tutte le pene, il sangue e le infezioni a mesi dopo le violenze, solo pochissime donne intervistate da AP avevano visto un dottore. Tutte le altre non sapevano che erano disponibili servizi gratuiti o provavano troppa vergogna per raccontare di essere state stuprate.

In una clinica stracolma di donne e bambini che piangono, il dottore del governo Misbah Uddin Ahmed siede alla sua scrivania stanco. Tira fuori un volume di cartelle cliniche per chi è stato medicato ed inizia a scorrerle leggendo ad alta voce i casi:

5 settembre, una donna incinta di 7 mesi dice che tre soldati entrarono in casa 11 giorni da e la stuprarono. Una donna dice che dormiva in casa quando 20 giorni prima tre soldati la stuprarono.

10 settembre una donna dice che i militari si recarono alla casa un mese fa e picchiarono il marito prima che due soldati la stuprassero.

Ahmed dice che le donne che riescono a superare la loro paura e raggiungono la clinica sono di solito quelle più turbate. Così tante altre soffrono nel silenzio, aggiunge.

Sebbene la scala di questi attacchi sia nuova, l’uso della violenza sessuale daparte della forze di sicurezza birmane non lo è. Prima che diventasse il capo politico del paese, Aung San Suu Kyi condannò gli abusi dei militari. “Lo stupro è dilagante. E’ usato come un’arma dalle forze armate per intimidir le nazionalità etniche e dividere il paese.” dichiarò nel 2011 in una dichiarazione filmata per Nobel Women’s Initiative.

Eppure il governo di Aung San Suu Kyi non solo non ha condannato le denunce recenti di stupri, ma li ha anche rigettati come bugie. Nel dicembre 2016 il governo emise una dichiarazione in cui contestava le accuse di stupri delle donne Rohingya, accompagnata da un’immagine che diceva “Stupri falsi”.

stupro delle donne rohingya
foto di Wong Maye-E

Ahmed è sbalordito che si possa persino dubitare di queste donne. Date solo uno sguardo a ciò che vi ho mostrato, dice, indicando il faldone che racconta un’atrocità dopo l’altra.

La ginecologa Arjina Akhter ha testimoniato i risultati di tali atrocità. Da agosto tante donne cominciarono a presentarsi alle due cliniche e lei smise di chieder loro di riempire i moduli con la loro storia per poterle medicare più velocemente. Tra le altre donne stima che tra 20 e 30 sopravvissute agli stupri abbaino visitato la sua clinica da Settembre ed ottobre.

Elenca le ferite: due donne con le cervici lacerate, penetrate dalla canna del fucile. Una donna con strappi orrendi causati da un chiodo nella vagina. Varie donne con gravi sanguinamenti vaginali.

Più di recente, dice, le donne che furono stuprate mesi prima giungono da lei in preda al panico chiedendo di abortire. Deve spiegare loro che sono troppo in là rassicurandole che, se non possono prendersi cura dei bambini, il governo lo farà.

Per alcune donne Rohingya, abbandonare i bambini che non hanno mai chiesto non è un’opzione.

Ed è quello che accadde a F.

Erano passati oltre tre mesi da quando gli uomini si erano catapultati nella casa di F e la sua disperazione si era solo approfondita.

I vicini l’avevano presa in casa ed avevano cura di lei. Ma la sua casa non c’era più, il marito morto. Ed i tempi non lasciavano alcun dubbio che il bambino che le cresceva dentro apparteneva ad uno degli uomini che le avevano causato tanto dolore.

Poteva solo pregare che le cose non peggiorassero. E poi una notte a metà settembre, lo fecero.

F dormiva con i suoi vicini, una coppia col loro piccolo di cinque anni, quando gli uomini buttarono giù la porta, facendo saltare in piedi tutti.

Ricorda che erano cinque questa volta. Afferrarono in fretta il ragazzo tagliandogli la gola, poi uccisero l’uomo.

Poi si dedicarono alla moglie dell’uomo e ad F. Ed il suo incubo ricominciò di nuovo.

Strapparono loro i vestiti. Due degli uomini notarono il rigonfiamento sullo stomaco di F e l’afferrarono, premendolo con forza.

Le buttarono per terra. L’amica di F cominciò a lottare e gli uomini la picchiarono con le armi da farle staccare la pelle dalle gambe.

Ma la voglia di lottare era andata via dal corpo di F. Sentì il corpo diventare soffice, sentì il sangue scorrerle tra le gambe mentre il primo uomo la stuprava e poi il secondo. Vicino a lei tre uomini assalivano selvaggiamente la sua amica.

Quando alla fine terminò tutto e gli uomini se ne erano andati, le due donne giacevano immobili per terra.

Restarono così per giorni, menomate dal dolore e catatoniche per il trauma da non potersi neanche alzare per i bisogni fisiologici. F poteva sentire la puzza del sangue attorno a loro. Mentre la casa si cuoceva sotto quel sole di punizione, la puzza dei corpi in decomposizione del marito della donna e del figlio presero il sopravvento.

Non sarebbe morta qui. Neanche il suo bambino.

Si allungò a prendere la mano dell’amica. Poi F si alzò in piedi tirando con sé l’amica. Mano nella mano, si incamminarono al prossimo villaggio. Lì passarono cinque giorni per riprendersi e poi, insieme ad un gruppo di altri cittadini, iniziarono il lungo viaggio verso il Bangladesh.

Era cominciata la stagione dei monsoni, ma non c’era nulla per ripararsi. F così continuò a camminare sotto gli acquazzoni. Soffriva la fame ed il suo corpo le doleva ad ogni passo. Degli estranei generosi le offrivano la loro acqua ed un uomo le diede qualcosa da mangiare.

Un giorno incontrò per caso un ragazzo di nove anni disteso lungo la strada, ferito e solo. Aveva perso i genitori, le disse, ed i soldati lo avevano torturato. Lo prese con sé.

Insieme i due raggiunsero le rive del fiume Naf e salì su una barca per il Bangladesh.

E’ lì che vivono ora, in una piccola casupola di bambù tra due latrine sporche. Ed è qui che F prega che il suo piccolo sarà un maschio, perché questo mondo non è un posto per una ragazza.

Per ora le donne restano a domandarsi quanto tempo vivranno nell’oscuro limbo che è il Bangladesh e se mai torneranno alla loro terra.

R, l’adolescente, non è incinta. La madre vendette tutto e la portò in tempo all’ospedale. Ma R non riesce a smettere di pensare ai suoi fratellini ed il suo sonno è pieno di incubi.

Dopo lo stupro le è difficile mangiare, e la sua corporatura un tempo tonda si è asciutta. Prima dello stupro le dice sottovoce che era bella.

K, che aveva paura che il bambino in grembo fosse morto, diede alla luce un ragazzo sul pavimento della sua tenda in un sussulto di sollievo. Era riuscita a tenere il figlio vivo in tutto questo.

Ma il suo trauma è lì. Il rumore degli elicotteri che si aggirano sopra il campo la manda in panico e recita le preghiere musulmane di chi sta per morire. E’ convinta che l’elicottero sono i militari birmani che vengono ad ucciderli tutti.

Quando le si dice che è forte, alza lo sguardo con le lacrime agli occhi.

foto di Wong Maye-E

“Come puoi dirlo? Mio marito dice che si vergogna di me. Come è che sono forte?”

F, che ha il corpo che comincia a dolerle per la gravidanza, si ritrova a pensare come farà ad avere cura del suo piccolo nel futuro. Crede che Dio l’abbia mantenuti in vita per una ragione.

I genitori, suo fratello, il marito se ne sono andati. Questo piccolo sarà la sua sola famiglia. Per lei il ricordo più persecutorio della sua agonia che ha anche vissuto, in qualche modo, rappresenta la sua ultima possibilità di felicità.

“Sono morti tutti” dice. “Non ho nessuno più che si prende cura di me. Se do via questo piccolo, cosa mi rimane? Non ci sarà nulla per cui vivere”.

Kirsten Galineau, AP

The Associated Press reported this story with a grant from the Pulitzer Center on Crisis Reporting.

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