Un lato oscuro della transizione verde è l’estrazione delle risorse minerarie che molto spesso avviene in territori ricchi di biodiversità e territori ancestrali di popolazioni indigene, e l’industria mineraria filippina che ora è disponibile al mondo non fa eccezione.
Un rapporto di Global Witness testimonia proprio il rischio che corrono le popolazioni indigene e la biodiversità dell’arcipelago con il ritorno in piena funzione dell’industria mineraria filippina con la crescita della domanda di minerali critici anche per l’industria verde, Nichel e Rame tra i tanti.
Le Filippine dispongono di riserve non sfruttate di oro, rame, nichel, zinco e argento, di cui solo il 5% è stato esplorato ed il 3% è coperto da contratti minerari.
Ora le Filippine che nel 2023 sono state uno dei principali fornitori di Nichel della Cina vogliono diversificare le proprie esportazioni e cercano investimenti nel settore in paesi come Giappone, USA ed Europa, anche a causa delle tensioni nel mare cinese meridionale che l’oppongono proprio alla Cina.
La ricerca di Global Witness insieme a Kalikasa People’s Network for Environment, Kalikasa PNE, mostra stando ai dati governativi come il lato oscuro dello sfruttamento minerario è l’impatto che esso ha sulla vita delle popolazioni indigene e la biodiversità dei luoghi.

Le popolazioni indigene hanno già perso un’area di suoli paragonabile alla grandezza di un’isola come Timor Est negli ultimi 30 anni in favore delle miniere ed equivalente ad un quinto delle proprie terre totali. In più proprio le popolazioni indigene sono oggetto in modo spropositato di vendette per aver parlato contro le attività minerarie.
“In totale oltre un quarto dei territori minerari si scontrano con aree protette e di biodiversità o aree umide conosciuti come Siti Ramsar, fondamentali per mitigare gli impatti della ripartizione climatica con una perdita sostanziale di foreste”.
Le Filippine sono state dichiarate dal 2012 come il paese più pericoloso dell’Asia perché un terzo dei militanti ambientalisti uccisi sono filippini.
Secondo GW lo spostamento verso l’energia verde ha già causato danni alle persone e all’ambiente naturale nelle Filippine e la crescita della domanda globale rischia di mettere sempre più in pericolo la vita delle persone che vivono in quegli ambienti naturali.
Nello specifico delle Filippine, si deve aggiungere anche l’intimidazione, la violenza e le dislocazioni che le popolazioni indigene subiscono ad opera dei militari, con una serie di violazioni dei diritti umani, rimasti impuniti anche sotto la presidenza di Marcos Figlio che ha presieduto le infrastrutture dell’Industria Verde. Ad essere presi di mira sono i militanti dei diritti umani e i critici dell’industria mineraria usando la legislazione dell’antiterrorismo.
“Mappando i punti caldi dei rischi per le comunità e l’ambiente nelle Filippine, questo rapporto mostra che, senza tutele più forti, la cosiddetta corsa ai minerali “verdi” rischia di alimentare ulteriori accaparramenti di terre da parte degli indigeni, di distruggere una biodiversità cruciale e di provocare un’impennata della militarizzazione e della violenza guidata dallo Stato contro chi difende i diritti.
Il mondo deve abbandonare rapidamente i combustibili fossili e questo richiederà minerali di transizione. Ma la transizione energetica non può avvenire a spese delle comunità e della biodiversità critica per il clima.

I nostri risultati fanno seguito a un’analisi di Global Witness che ha mostrato come Paesi emergenti come le Filippine siano stati colpiti in modo sproporzionato da violenze e proteste legate all’estrazione mineraria, mentre i profitti sono stati per lo più catturati da aziende di economie più ricche.”
La minaccia dei minerali di transizione alla più preziosa biodiversità del pianeta
Le Filippine sono il secondo maggior produttore di Nichel la cui domanda entro il 2040 crescerà di sette volte. Oltre al Nichel le Filippine hanno altri minerali essenziali per le rinnovabili come rame, cromo, argento e zinco, per lo più inesplorate.
“Al momento un quinto del suolo filippino è coperto da permessi di esplorazione e sfruttamento minerario”, cifra che è destinata a salire con la riapertura dell’esplorazione mineraria e con l’accelerazione data ai permessi all’industria mineraria.
“L’estrazione di Nichel e rame, due delle principali esportazioni del paese è un affare estremamente sporco. I danni sono visibili dallo spazio. Le comunità hanno visto inorridite come le acque diventano rosse per i reflui tossici sversati nell’ambiente. I pesci muoiono e i raccolti avvizziscono cancellando sostentamento e distruggendo gli ecosistemi”.
“La nostra analisi mostra che più di un quarto del territorio complessivo dei permessi minerari di transizione si sovrappone ad aree protette o chiave per la biodiversità o a siti Ramsar.
Quasi la metà di tutti i permessi individuali si scontra in qualche misura con queste importanti zone ecologiche.
Dal 2010, nelle regioni designate per l’estrazione mineraria sono andati persi più di 230.000 ettari di copertura arborea, un’area grande quasi tre volte la città di New York.”
L’estrazione mineraria avviene anche in aree legalmente protette come bacini idrografici essenziali, foreste antiche e santuari di vita selvatica, nonostante sia proibito per legge.
Dice Beverly Longid di KATRIBU (National Alliance of Indigenous Peoples Organizations in the Philippines):
“La spinta forte per l’estrazione mineraria nelle Filippine fa vedere le profonde contraddizioni nell’approccio alla sostenibilità. Mentre si dice che la transizione energetica vuole mitigare la crisi climatica, la realtà è che alimenta gli stessi sistemi di sfruttamento che mettono in pericolo le terre e la gente da generazioni”.
Le Filippine sono tra i 18 Paesi con mega-biodiversità al mondo, ma è anche uno dei Paesi più a rischio di disastri al mondo e tra i più vulnerabili ai cambiamenti climatici.
“Quasi la metà dell’area totale dei progetti di nichel si scontra con aree chiave della biodiversità nelle Filippine, mentre il rame ha la più grande sovrapposizione territoriale con gli hotspot della biodiversità di qualsiasi altro minerale di transizione.
A Palawan, un’isola occidentale lussureggiante e ricca di nichel che ospita una flora e una fauna tra le più diverse al mondo, abbiamo riscontrato una totale sovrapposizione tra aree minerarie e zone di biodiversità.
Nel polo minerario di Surigao Del Sur, a Caraga, nel nord-est di Mindanao, quasi il 70% delle zone di estrazione del nichel e quasi l’80% delle zone di estrazione del rame si sono scontrate con gli hotspot di biodiversità.”
Popolazioni indigene e miniere filippine
Le comunità indigene rappresentano tra il 10 e il 20% della popolazione filippina occupando 14 milioni di ettari con il 75% delle foreste restanti. Ed un quarto delle zone dei minerali di transizione si sovrappone sulle terre delle Popolazioni Indigene che già vedono massicci accaparramenti di suolo da parte delle imprese minerarie anche su aree delimitate come terre ancestrali.
La stessa delimitazione delle terre ancestrali è un processo lungo, costoso e burocratico, spesso soggetto alla volontà delle elite e alle loro macchinazioni.
La commissione che presiede a questi processi è la NCIP, commissione nazionale per le popolazioni indigene, è spesso accusata di rallentare i processi e di tradire le popolazioni stesse e i diritti legali delle popolazioni.
Inoltre spesso la NCIP è accusata di essere in combutta con militari e imprese per spingere le popolazioni indigene ad accettare i progetti minerari.
“Quasi la metà dei territori dei domini ancestrali si sovrappone con i centri di biodiversità. Si deve dare credito alle popolazioni indigene per la protezione di questi territori con le loro pratiche tradizionali….
Le nostre comunità hanno vissuto in armonia con la terra per secoli, comprendendo che la protezione della biodiversità è essenziale non solo per la nostra sopravvivenza, ma per la sopravvivenza di tutta la vita. Dovrebbe essere chiaro che proteggere la biodiversità significa proteggere i diritti degli Indigeni… Più le nostre terre ci vengono sottratte, più i nostri ecosistemi diventano vulnerabili alla distruzione”. ha dichiarato Beverly Longid
La minaccia maggiore a chi difende i diritti delle popolazioni indigene sono i militari
Ma le popolazioni indigene hanno provato a difendere le loro terre dalle incursioni delle compagnie minerarie e dai militari, pagando spesso con la vita.
Nel periodo 2012-2023 un terzo dei militanti ambientalisti uccisi nelle Filippine è costituito da Popolazioni indigene e la metà di loro è legata all’industria mineraria.
“L’esercito è il principale responsabile delle uccisioni di difensori nelle Filippine, soprattutto delle popolazioni indigene. È stato responsabile di 64 delle 117 uccisioni di difensori indigeni che Global Witness ha documentato tra il 2012 e il 2013. Uomini armati spesso sorvegliano le miniere.”
A protezione delle miniere filippine e loro infrastrutture ci sono sia i militari che unità paramilitari che lavorano a stretto contatto con le imprese e sono legati ad abusi e omicidi e violenze sessuali.
La giustificazione dei militari è che molte di queste regioni sono zone della guerriglia del NPA-CPP che spesso recluta proprio tra le popolazioni indigene.
Le operazioni di controinsorgenza spesso portano truppe in queste regioni ricche di risorse dove però operano anche militanti che si oppongono alle operazioni minerarie e che sono spesso definiti militanti o fiancheggiatori della guerriglia.
I gruppi della società civile accusano lo stato di usare i militari per sopprimere la resistenza ai progetti di estrazione e per cacciare le popolazioni indigene dalle loro terre che diventano così oggetto di sviluppo.
“Ho visto di persona come le operazioni militare sono usate per minacciare i capi e i militanti delle popolazioni indigene, definendoli terroristi o insorti solo perché si oppongono ai progetti minerari. Questo approccio giustifica la militarizzazione delle loro terre con il pretesto della sicurezza mettendo in silenzio ogni resistenza alle pratiche distruttive associate alle miniere” ha detto il prete cattolico Raymond Montero-Ambray a Mindanao.
Nel 2018 il presidente Duterte formò un nuovo corpo di controinsorgenza, NTF-ELCAC a cui partecipano vari dipartimenti governativi tra cui NCIP. Proprio questa agenzia ha assunto il ruolo guida nella diffamazione di militanti dei diritti umani e militanti ambientalisti usando spesso l’accusa di fiancheggiamento della guerriglia, definita come “caccia al Rosso”.
Nel 2023 i militari sono stati responsabili di 15 dei 17 omicidi di militanti, mentre nel 2022 sono stati 8 su 11. Sono cresciuti anche le scomparse forzate durante il periodo della presidenza di Marcos Figlio che causano moltissima apprensione sulle comunità.
Secondo Global Witness sono scomparsi sette militanti nel solo 2023 per lo più in aree fortemente militarizzate.
Sotto la facciata più diplomatica e presidenziale di Marcos Figlio la situazione è differente ed è molto simile alle politiche repressive di Duterte, come dice Francisco Danglia III, fatto scomparire per tre giorni nelle Filippine del Nord.
Il flagello della Caccia al Rosso
L’accusa di essere fiancheggiatori della guerriglia, o di aver compiuto nel passato azioni violente, o di essere dichiarati terroristi è l’accusa che è sempre usata contro quei militanti che sono prima accusati e poi assolti dall’accusa di ribellione armata in tribunale.
E’ il caso di Jennifer Awingan-Taggaoa di Cordillera Peoples’ Alliance che è stata accusata, alla fine di tutti i tentativi, di aver compiuto crimini violenti nel passato:

“Questi attacchi hanno un peso enorme e lasciano me e la famiglia traumatizzati e sotto il sospetto costante. Ora devo stare attento a muovermi a viaggiare ed assicurarmi che ci sia sempre qualcuno quando vado fuori” dice Stephen Tauli che fu accusato di essere comunista insieme a Jennifer, dopo essere stato rapito, bendato e interrogato per ore da agenti dello stato.
“Essere indicata come terrorista ha colpito la mia capacità di lavorare, mi isola togliendomi la legittimità di ciò che faccio e lasciando il dubbio sulle mie intenzioni. Fa di me un obiettivo” dice Jennifer a GW.
I militanti ambientalisti e delle popolazioni indigene sono sempre più spesso accusati di ribellione o terrorismo per essersi espressi sui progetti minerari.
Esperti ONU dei diritti umani hanno chiesto al governo filippino di abbandonare la pratica della caccia al rosso.
“Le forze armate filippine sono coinvolte in oltre il 45% dei casi registrati di arresto di persone identificate come militanti ambientalisti o delle terre sin dal 2017. I militari di contro sono coinvolti solo nell’otto percento degli arresti di altri militanti di diritti umani. Due su tre casi di arresto che prendono di mira le popolazioni indigene sono fatti dai militari.”
“Le organizzazioni più vocali ed efficaci sono definite comuniste o vilificate dal governo che può formalmente designare individui ed organizzazioni come terroristi congelando conti bancari e proprietà di individui e organizzazioni anche se sono solo sospettati. Militanti sono stati rapiti e scompaiono di conseguenza.”
Nonostante una sentenza della corte suprema filippina che dichiarava la “caccia al rosso” minaccia ai diritti alla vita, alla libertà o sicurezza della persona, il governo di Marcos ha sempre più usato le leggi sulla finanza contro il terrorismo contro i militanti.
Va anche aggiunto che l’uscita delle Filippine dalla lista grigia del riciclaggio è dovuto per lo più a questo tipo di uso delle leggi di finanza, usando addirittura il linguaggio del cambiamento climatico e della mitigazione climatica per giustificare l’intervento della sicurezza e della militarizzazione delle infrastrutture energetiche.
Mindanao tra miniere e militarizzazione
L’isola di Mindanao ha finora il numero maggiore di omicidi di militanti indigeni e in opposizione alle attività minerarie, ed è anche il luogo dove si ha la maggiore sovrapposizione tra attività minerarie e domini ancestrali con il 50% dei territori.
Quasi la metà di tutte le concessioni per minerali di transizione a Mindanao sono sovrapposte sia ai domini ancestrali che ad aree fondamentali di biodiversità. Quasi i due terzi di tutta la terra indigena reclamata dalle imprese minerarie per i minerali di transizione sono a Mindanao.
A pagare il costo spropositato sono le comunità indigene Lumad, specie i Monobos.
“Quasi un quarto dell’area di tutti i tipi di estrazione mineraria su terreni formalmente riconosciuti come indigeni interessa le comunità Manobo, nonostante queste rappresentino solo il 7% circa della popolazione indigena delle Filippine.
Anche altre comunità Lumad dell’isola, come Mandaya, Mamanwa e Subanen, sono state pesantemente colpite dall’estrazione mineraria, compresa quella di minerali di transizione.”
I Lumad di Mindanao rischiano di essere il danno collaterale della corsa globale alle risorse, messi da parte, cacciati dalle loro terre terre e messi in pericolo dalla militarizzazione e dalla violenza.
“La maggior parte delle terre Manobo occupate dai permessi minerari di transizione si trovavano a Caraga, una delle regioni più pericolose delle Filippine per un attivista indigeno contro lo sfruttamento minerario.
Caraga è un centro di produzione di nichel, dove si estrae minerale per un valore di oltre 600 milioni di euro nel 2023.
A Surigao Del Sur, nel sud delle Filippine, soprannominata la “capitale mineraria delle Filippine”, l’84% delle miniere di nichel si scontra con aree chiave per la biodiversità e con terre indigene.
È tra le tre province più pericolose per gli attivisti anti-minerari e indigeni.
Gli esperti delle Nazioni Unite hanno messo in guardia sull’impatto devastante della militarizzazione sulle comunità indigene di Mindanao.”
La lotta delle comunità indigene contro le miniere filippine del verde
Si capisce facilmente che l’esplosione della domanda globale di minerali critici e di transizione potrebbe rappresentare un disastro per le comunità locali e l’ambiente se non si affrontano tutte le problematiche viste finora.
Le Filippine si presentano al mondo come un partner strategico per quei governi che accettano il dominio cinese del mercato, come la UE che ha ripreso a discutere con le Filippine su un accordo commerciale per i minerali di transizione.
Gli stessi USA in un loro aiuto di 135 milioni di dollari includono il sostegno allo sfruttamento dei minerali critici e agli investimenti in energia pulita che prevedono tra l’altro la ripresa dei lavori presso la miniera di Tampakan dove nel 2012 fu massacrata un’intera famiglia della comunità Blaan che attende ancora giustizia.
“Al cuore della conservazione della biodiversità c’è il riconoscimento che i Popoli Indigeni sono i protettori ambientali originali. Tuttavia piuttosto che sostenerli nel loro ruolo, sono cacciati dai territori, criminalizzati e privati dalla loro sovranità. Se la comunità globale davvero vuole la giustizia ecologica deve iniziare difendendo i diritti delle Popolazioni Indigene e restaurando il loro controllo sulle terre ancestrali” dice Beverly Longid.