Immediatamente dopo gli attacchi di domenica contro le forze di sicurezza nella città di Muangdaw nello stato dell’Arakan, o anche Rakhine, si sono subito create dicerie, accuse e pure notizie propagandistiche solo sulla base delle poche notizie a disposizione.
Politici e rappresentanti ufficiali non hanno perso tempo ad attribuire gli attacchi alla RSO, Organizzazione di solidarietà Rohingya, un gruppo ritenuto morto, nonostante la completa mancanza di prove. Molti giornalisti hanno ripreso ciecamente questa notizia propagando così l’agenda politica di parti interessate in un conflitto molto polarizzato.
Altri, tra i quali il famigerato monaco Ashin Wirathu, hanno aggiunto benzina sul fuoco agitando su Facebook l’idea di una Terza Jihad in un post che è stato visto in breve tempo già seimila volte.
Se per alcuni casi l’agenda è chiara, in altri casi, come quei giornalisti che ciecamente accettano le dichiarazioni senza alcuna verifica delle informazioni, ci si deve domandare se la ragione non sia che le accuse non verificate, in realtà, si adeguano perfettamente ai propri pregiudizi, in un paese dove i Rohingya sono stati calunniati da sempre.
Sia che siano descritti come intrusi dal Bangladesh che terroristi, i Rohingya sono stati demonizzati di volta in volta in Birmania. Sia che usano le armi reali che le armi della Bomba Demografica del loro tasso presunto di riproduzione, sono visti come una minaccia all’esistenza stessa della comunità Rakhine o persino della Birmania stessa.
Ma a riempire il vuoto di informazioni con affermazioni dubbie non sono stati solo i nazionalisti Rakhine o Birmani. Dalla parte Rohingya alcuni hanno accusato che l’attacco era stato portato avanti dalla Arakan Army, gruppo armato Rakhine, senza dare alcuna prova a sostegno. E nella stampa internazionale le notizie di attacchi violenti nei villaggi a Muangdaw sono stati accolti con qualche scetticismo.
La questione non è se correggere qualche informazione, ma mettere in guardia contro la facile credulità. Con la mancanza di informazioni e nella mancanza di trasparenza totale che prevale in Birmania, bisogna essere molto attenti a giungere a conclusioni, specialmente se si adagiano bene ai propri pregiudizi che di per sé non sono misura di verità.
Per tanti in Birmania i Rohingya non possono essere considerati delle pure vittime: sono degli esterni non accettati che impongono la loro presenza agli altri, parte dell’invasione musulmana dell’Arakan e della Birmania a cui bisogna opporsi. Per molti altri comunque i Rohingya non possono essere che vittime, soggetti a sistematica oppressione da parte dei nazionalisti Rakhine e dello stato Birmano dal periodo di Ne Win. Gran parte delle interpretazioni porta uno di questi colori nella descrizione degli eventi.
Quello che però si manca di riconoscere in entrambi i casi, nella situazione di assoluta disperazione in cui i Rohingya sono stati spinti, sarebbe naturale che alcuni abbiano scelto l’uso della violenza, indipendentemente da quello che delle menti più fredde possano aver detto loro e di quanto controproducente quella violenza sia.
Indipendentemente da quanto divergenti possano essere state le notizie di domenica, è l’assunzione sottostante a tutte le interpretazioni è che i gruppi e le comunità etnici siano “entità solide” che agiscono e si comportano come agente unico. Lo studioso Rogers Brubaker lo definì “gruppismo” come “la tendenza a considerare gruppi discreti, nettamente differenziati, omogenei al loro interno e legati esternamente come costituenti fondamentali della vita sociale, protagonisti fondamentali dei conflitti sociali, ed unità fondamentali dell’analisi sociale”
Non c’è bisogno di dire che nessuno dei gruppi etnici è “attore unitario collettivo”: mentre tutti i Rakhine sono soggetti in modo differente alla pressione a rigettare i Rohingya, le loro reazioni possono cambiare enormemente. Alcuni forse provano un odio genuino, ma altri potrebbero essere solo indifferenti o, in rari casi, simpatetici. In modo simile anche se tutti i Rohingya che vivono nell’Arakan soffrono della discriminazione sistematica, la loro reazione a tale situazione saranno diverse come lo sono le storie individuali. I membri di un gruppo etnico non reagiranno allo stesso modo verso una situazione in cui il gruppo si trova.
Questa reificazione dei gruppi etnici è una delle caratteristiche più pervasive della vita sociale in Birmania come in tanti altri paesi colpiti da tensioni e conflitti etnici estremi, come il Ruanda, l’ex Yugoslavia, India o Sri Lanka. Sia gli attori esterni che gli osservatori interni spesso lo vedono come il risultato di dolori antichi anche se molti di questi conflitti sono fin troppo moderni. Si invoca spesso una lunga storia di torti da parte degli attori politici per mantenere questi conflitti cosa viva, come hanno indicato Suzanne e Lloyd Rudolph, “le amicizie sono antiche come gli odi”. E’ anche il caso dell’Arakan, dove secondo lo storico Michael Charney, le comunità buddiste e musulmane hanno una lunga storia di coesistenza per lo più armoniosa e pacifica prima del periodo coloniale.
Inoltre gli stessi gruppi etnici come li conosciamo ora sono spesso cosa nuova. Nel caso dell’Arakan l’emergere di comunità etniche Rakhine e Rohingya come gruppi così stretti, discreti ed antagonisti è molto più recente di quanto si pensi. E’ discutibilmente il risultato di processi storici e decisioni politiche, legate strettamente all’impatto del periodo coloniale in Birmania e l’imposizione di confini tra gli stati nazione moderni. Ma la reificazione corrente dei gruppi etnici implica sempre una proiezione nel passato: il gruppo etnico come lo conosciamo ora è sempre stato così.
La reificazione etnica è un processo sociale, per usare le parole di Brubaker, ed “la formazione dei gruppi è qualcosa che accade”. Ma perché nel mezzo di una crisi acuta nello stato dell’Arakan, che potrebbe avere conseguenze imprevedibili” è importante riflettere su questi punti apparentemente da studiosi?
Se non vedessimo i gruppi etnici come Rohingya o Rakhine come attori unitari collettivi, potremmo evitare la trappola di attribuire la responsabilità collettiva che, come spesso accade nell’Arakan, tende a comportare una pena collettiva. Se credo che il gruppo a cui appartengo è minacciato da un altro gruppo, qualunque azione per prevenirla sarà giustificato, inclusi i crimini crudeli contro i membri più deboli.
Lo abbiamo visto nel 2012 quando dieci musulmani furono uccisi a Taungup per vendetta contro lo stupro e la morte di una ragazza buddista in un’altra città. Questo portò ad ondate terribili di violenze settarie che mettevano contro comunità contro comunità, in cui le comunità musulmane che vivevano nell’Arakan, Rohingya e Kaman, furono in fin dei conti punite collettivamente.
Nell’Arakan la caratterizzazione delle altre comunità spesso funziona in entrambe le vie. Molti nei campi profughi per i musulmani a Sittwe credono che i Rohingya siano uccisi di routine dai medici e infermiere all’Ospedale Generale di Sittwe.
La storia ha persino toccato i media internazionali quando però la prova di ciò è per lo meno flebile. Lo scorso novembre una donna di un campo mi disse che quasi una dozzina di pazienti che aveva accompagnato all’ospedale erano tornati sani. Cionondimeno, continuano le dicerie in gran parte perché i Rohingya, dopo le sofferenze di anni degli effetti dell’odio razziale e di una politica di separazione, credono che i dottori e le infermiere, come tutti i Rakhine, li odiano e li vogliono vedere morti.
La concezione in tutti questi casi è sempre che i membri di un altro gruppo, considerato come singola entità, condividono il solo scopo di distruggere il gruppo a cui si appartiene. Mentre tutti puntano alla comunità Rohingya come i colpevoli più probabili degli attacchi di domenica, si fa sempre più presente di prima il brutto spettro della pena collettiva contro l’intera comunità.
Per chi della comunità Rakhine e Royingya si trova nel folto del conflitto, potrebbe essere difficile pensare in termini di altro di quelli che determinano una gran parte della loro vita.
Ma giornalisti ed osservatori esterni non hanno scuse quando ripetono, in modo acritico, i discorsi che hanno contribuito, per decenni, a portare devastazione inenarrabili ad entrambe le comunità.
CARLOS SARDIÑA GALACHE, DVB.NO