Ci sono solo resti anneriti dove prima c’erano le capanne elevate sulla spiaggia bianca.
“La situazione è peggiore di quando ci fu lo tsunami” dice Hook, un nomade di mare Moken che verifica il danno che l’incendio ha causato al suo villaggio natio, sulle isole di Surin in Thailandia.
Dopo lo tsunami del 2004 che distrusse il precedente villaggio Moken nel mare delle Andamane, la gente riuscì a recuperare qualcosa di quello che avevano, dice Hook, ma questa volta, dopo l’incendio scoppiato il 3 febbraio, non è rimasto più nulla.
Ora la comunità ha paura per il proprio futuro, perché le autorità cominciano a ricostruire il villaggio a Au Bon Yai Bay, nel suo disegno originale, usando un modello di casa insicuro fatto di strutture altamente infiammabili, fortemente addensate insieme. Ed ha riacceso una battaglia per i diritti alle terre ancestrali dei Moken.
I Moken, esperti subacquei in apnea, cacciatori e nomadi di mare, hanno sempre vissuto in mare e si spostavano sulla terra ferma durante la stagione delle piogge, finché non furono costretti sulla terra in modo permanente alcuni decenni fa.
La comunità dei Moken di Surin scelse questa isola molte generazioni fa. Giunsero all’attenzione del mondo come sopravvissuti e per l’eroismo mostrato durante lo tsunami del 2004. Ora il villaggio posto in un parco nazionale attrae migliaia di turisti.
L’incendio scoppiò appena dopo il tramonto, dopo che l’ultimo gruppo di turisti se ne era andato. Faceva molto caldo da molti giorni e le capanne di bambù e foglie di palma erano tutte secchi. Come accade in quel periodo dell’anno, soffiava un forte vento da nord. Prese fuoco casualmente una capanna e poi si diffuse velocemente in tutto il villaggio.
Il disegno del villaggio, fatto di tre file di capanne così strette l’una con l’altra che i tetti si toccano, permise alle fiamme di diffondersi ad una velocità impressionante.
Uno spirito del fuoco sembrava danzare da un tetto all’altro, dicono gli abitanti del villaggio.
Le case erano un combustibile. I Moken lottarono con forza finché non divenne troppo forte il fuoco per continuare. Ci volle solo una mezzora alle 61 capanne del lato destro per essere mangiate dalle fiamme.
Mentre nessuno perse la vita nel fuoco, 273 persone rimasero senza casa, con tutte le loro cose sparite. Dai vestiti alle stoviglie, ai materiali di lavoro, ai cimeli di generazioni della famiglia, ai risparmi di una vita.
Mentre il fuoco si diffondeva verso l’estremità del villaggio, Tad aiutò la moglie vulnerabile Sabai, perché cieca, a sfuggire alle fiamme afferrando il suo tamburo e le noci di betel.
Tutte le donne ed i bambini Moken furono evacuati in un campo su un’isola vicina dentro il parco nazionale di Surin, ma il giorno seguente tornarono al villaggio preferendo dormire sotto le stelle piuttosto che sotto un telo.
Le autorità del parco e la marina thailandese accorsero subito. Giunsero gli aiuti finanziari e materiali dalla terraferma. Donazioni ed aiuto assunsero la forma di alimenti, medicine, vestiti.
La vita quotidiana è difficile. C’è una sola fontana per l’intero villaggio. E’ stata data qualche cucina a carbone per cucinare. Ma i Moken amano condividere. La loro lingua non ha termini per voglio, prendono, mio.
La gente ha dormito sulla spiaggia, nella scuola e condiviso quelle capanne che gli abitanti sono riusciti a salvare.
Il governo ha mandato i soldati per ricostruire il villaggio prima dell’arrivo della stagione delle piogge a fine marzo.
A causa del tempo e dei soldi limitati, nella corsa a ricostruire velocemente, hanno usato l’originale spazio confinato, le stesse file di piccole capanne impaccate in uno spazio ristretto, costruito degli stessi materiali infiammabili.
Ma i Moken ora vedono quanto sia pericoloso questa disposizione.
“Abbiamo grandi gruppi nella stagione secca” dice Hook. “Con gli abitanti e tanti turisti nella nostra piccola baia, temiamo che accadrà di nuovo e che qualcuno si farà male se non peggio”
Eppure i soldati hanno posto i pali, gettato le fondamenta per 61 capanne dentro lo stesso perimetro. Lo spazio per ogni capanna è fin troppo piccolo, tre metri per 6.5 metri.
“La mia famiglia è di sei persone” dice Mi Nge. “Ci saranno solo 3 metri per quattro di spazio per dormire, mettere le nostre cose ed una cucina”
Ci sono state consultazioni tra le autorità del parco, le autorità provinciali e la Marina Thailandese, ma sembra non con i Moken.
“Noi uomini Moken sappiamo costruire bene le nostre case” dice Hook. “Perché nessuno ci chiede come e dove vogliamo sistemare le nostre case?”
Ngui, fratello maggiore di Hook, è il capo villaggio. Mentre apprezza l’aiuto del governo, condivide la preoccupazione che la sistemazione delle case sia inadatta e pericolosa.
“Ci dissero che ci avrebbero fatto vedere il disegno se andava bene per i nostri bisogni.” dice. “Ma nessuno è venuto a chiederci nulla ed già hanno iniziato a porre i pali delle case.”
Ha paura del rischio di altri incendi, e di come la sua comunità in crescita riuscirà a sistemarsi in questo spazio sempre meno abitabile.
I Moken sanno meglio di tutti come organizzare e strutturare il proprio villaggio, in modo sicuro e sostenibile, in armonia con l’ambiente.
“Sarebbe grandioso poter ricostruire le case in legno con il tetto in paglia, ma ad una maggior distanza e costruite in modo che possano durare” dice Ngui
Vuole più spazio e c’è lo spazio per estendersi lungo la baia. Ma finora le autorità del parco nazionale non accettano.
“E’ improbabile che espanderemo un qualunque sviluppo oltre la spiaggia attuale” dice Putthapoj Khuphrasit, il presidente del parco nazionale di Surin. “Dobbiamo bilanciare i bisogni della comunità con la gestione dell’ambiente protetto dentro il parco”
C’è un’altra opzione che il parco non vuole ancora discutere, l’uso di una baia vicina. Da generazioni i Moken vivevano in varie baie a Koh Surin tra cui Au Bon Yai e Sai En, dove seppellivano i propri antenati, molto prima che esistesse il parco. Queste terre sono di diritto le loro terre ancestrali.
La soluzione ovvia per i Moken sarebbe tornare in entrambe le baie per vivere e gestirsi.
Come dice il generale Surin Pikulthong, un membro del Comitato per gli affari delle popolazioni indigene: “Sono qui da molto più tempo di ognuno di noi … non esistono leggi che danno al governo il potere di comandare le vite dei gruppi etnici che sono precedenti al governo e che vivono sulle loro terre ancestrali”
I Moken ci sono già arrivati qui. Quando lo tsunami del 2004 colpì sopravvissero grazie alla conoscenza profonda del mare ereditata attraverso le generazioni.
Mentre gli altri fissavano meravigliati l’acqua che recedeva prima che diventasse onda devastante, i vecchi dei Moken lessero il pericolo ed evacuarono tutti, la propria gente ed i turisti, su suoli più alti. Poi salvarono i sopravvissuti in mare.
Oltre 230 mila persone scomparvero nello tsunami in tutto il mondo. Ma non morì nessuno dei Moken che pure erano sul percorso dell’onda. Il vero trauma giunse quando dovettero ricostruire le case. Le richieste delle autorità del parco nazionale distrussero le tradizioni culturali Moken.
Normalmente i Moken ergono, secondo il loro credo animista, le case al limite della spiaggia, i piedi dei pali nell’acqua, vivendo nello spazio tra il mare e la terra, come il loro parente mitico, la tartaruga.
Quando furono costretti in una baia più piccola, il parco li costrinse alla attuale formazione di piccole capanne in linee fisse, molto unite l’una all’altra, una di fronte all’altra, di cattivo auspicio, e vicino alla giungla dove credono che vivano gli spiriti.
I Moken di Surin conoscono ed amano la propria terra più di tutti e sono molto motivati alla cura.
“Nacqui qui, mia madre e mio padre sono morti qui” dice Misia, un anziano capo spirituale dei Moken. “Sono preoccupato per i miei figli, i nipoti tutti. Mi preoccupano che non saranno felici. Molti hanno provato a convincerci a vivere sulla terra ferma. Sono stati nei posti dove ci hanno chiesto di costruire una casa. Ma non sono sul mare aperto. Alla fine riuscimmo a ritornare qui dove siamo sempre stati”
Susan Smillie The Guardian