Odio verso i Rohingya e negazione della pulizia etnica in Birmania prende tutti anche chi ha difeso i diritti umani per anni in carcere con i militari
Sistemandosi le gambe sotto la tonaca, l’abate buddista inizia a spiegare.
I Rohingya musulmani non appartengono e non devono mai appartenere alla Birmania, dice. Il loro tasso di fertilità ha permesso loro di sopraffare la popolazione buddista del posto. Ora però molti Rohingya sembra che se ne siano andati in qualche modo.
“Ringraziamo il Buddha per questo” dice U Thu Min Gala, l’abate del monastero Damarama di Sitwe, capitale dello stato occidentale Rakhine. “Hanno rubato la nostra terra, i nostri alimenti e la nostra acqua. Non li riaccetteremo mai”.
Un incredibile numero di resoconti pubblicati ha descritto nei dettagli la campagna dei militari birmani fatta di omicidi, stupri ed incendi nel Rakhine, che ha buttato fuori del paese oltre 600 mila Rohingya dallo scorso mese di agosto. L’ONU ha detto che è stato il più massiccio esodo di un popolo dal tempo del genocidio del Ruanda.
Ma in Birmania, e persino nello stesso stato Rakhine, c’è la negazione estrema che ci sia mai stata una pulizia etnica.
La divergenza sul modo di vedere i Rohingya tra la Birmania e molta parte del mondo esterno non si limita ad un segmento della società locale. Né si può lasciar correre in Birmania l’ odio verso i Rohingya, nei confronti degli apolidi musulmani come una questione di una frangia di popolazione.
Si sono uniti rappresentanti del governo, politici di opposizione, capi religiosi e persino militanti dei diritti del posto all’insegna di questa teoria: i Rohingya non sono cittadini di diritto della Birmania a maggioranza buddista, ed ora per il poter di un Islam che cresce a livello globale, la minoranza cerca falsamente di catturare la simpatia del mondo.
Gli articoli sui media sociali hanno ingigantito il messaggio quando affermano che i lavoratori dell’aiuto parteggiano apertamente per i Rohingya. Di conseguenza il governo birmano ha bloccato l’accesso delle agenzie dell’aiuto ai Rohingya che sono ancora intrappolati in Birmania. Sono circa 120 mila i Rohingya rinchiusi nei campi nel Rakhine centrale e decine di migliaia vivono in condizioni disperate nel nord.
La risposta ufficiale ai resoconti dell’ONU per gli incendi in massa di villaggi da parte dei militari e per aver preso di mira i civili è stata di insister che i Rohingya lo hanno fatto loro stessi.
“Non ci sono casi di militari che abbiano ucciso civili musulmani” ha detto Win Myat Aye, il ministro del welfare e segretario del partito NLD nel Rakhine. “I musulmani hanno ucciso la propria gente”.
Quando gli è stato chiesto delle prove contro i militari, il ministro ha notato che il governo birmano non ha mandato missioni di indagine in Bangladesh per raccogliere la testimonianza dei Rohingya in fuga, ma avrebbe posto questa possibilità in un prossimo incontro.
“Grazie per averci consigliato questa idea” ha detto.
I Rohingya, i quali parlano un dialetto bengalese e appaiono differenti dalla gran parte degli altri gruppi etnici della Birmania, hanno radici nel Rakhine da generazioni.
Le tensioni etniche tra i Rohingya e i buddisti etnici Rakhine esplosero durante la II guerra mondiale, quando i Rakhine si allearono ai giapponesi, mentre i Rohingya con la Gran Bretagna.
Sebbene molti Rohingya fossero stati considerati cittadini quando la Birmania divenne indipendente nel 1948, la giunta militare che nel 1962 prese il potere cominciò a togliere loro i diritti. Dopo l’introduzione di una legge restrittiva della cittadinanza nel 1982, la maggior parte dei Rohingya divenne apolide.
E’ stato rubato loro persino il nome Rohingya, con cui si identifica il gruppo etnico con maggior forza negli ultimi anni. Il governo si riferisce loro come Bengalesi, dicendo implicitamente che loro appartengono al Bangladesh. La gente in generale tende a chiamarli con un epiteto usato per tutti i musulmani in Birmania, Kalar.
La terminologia è così sensibile che nel suo discorso Aung San Suu Kyi, premio Nobel della pace e capo di stato di fatto, si è riferita loro come “Quelli che sono passati in Bangladesh”.
Alcuni politici di etnia Rakhine salutano l’esodo Rohingya come una buona cosa.
“La sola cosa che i Bengalesi apprendono nelle loro scuole religiose è di uccidere con brutalità” dice Khin Saw Wai, parlamentare dello stato Rakhine di Rathedaung. “E’ impossibile vivere insieme nel futuro”
I monaci buddisti, arbitri morali in una terra pia, sono stati in prima linea nella campagna di disumanizzazione dei Rohingya. Nei video popolari i monaci estremisti parlano dei Rohingya come “serpenti” o “peggiori dei cani”.
Fuori del monastero di Thu Min Gala a Sittwe, una coppia di segni riflette un senso alternato della realtà. Uno dice che il monastero che raccoglie profughi etnici Rakhine scappati alla zona del conflitto non accetta donazioni dalle agenzie internazionali. L’altro metteva in guardia che i gruppi multifede non sono benvoluti.
L’abate afferma che le autorità nel Rakhine avevano fermato una macchina del Comitato Internazionale della Croce Rossa piena di armi destinate ai militanti Rohingya che hanno potato avanti attacchi contro le forze di sicurezza ad Agosto. Thu Min Gala ha detto che erano state incartate candele di dinamite col logo della croce rossa, accusa che la Croce Rossa nega.
“Non ci fidiamo della società internazionale” ha detto il monaco. Sono solo dalla parte dei terroristi.
In un altro monastero di Sittwe, un abate anziano U Baddanta Thaw Ma ferma la mia conversazione con un giovane monaco agitando le mani. “Andatevene. Andatevene.”grida in inglese prima di tornare a parlare nel dialetto Rakhine. Andatevene stranieri. E portatevi i vostri amanti kalar”.
Il sentimento pubblico contro i musulmani, che rappresentano il 4% della popolazione birmana e che abbraccia vari gruppi etnici compresi i Rohingya, si è diffuso oltre lo stato Rakhine. Nelle elezioni del 2015 nessun grande partito ha presentato candidati musulmani. Oggi nessun musulmano è seduto in parlamento, per la prima volta dall’indipendenza del paese.
Nel villaggio di Sin Ma Kaw, a due ore di strada da Yangoon, la città più grande della Birmania, un amministratore del villaggio U Aye Swe dice di essere contento di dirigere uno dei villaggi “libero dai musulmani”, che vietano tra le tante restrizioni ai musulmani di passare la notte.
“I kalar non sono i benvenuti qui perché sono violenti e si moltiplicano all’impazzata con così tante donne e bambini”. Poi ammette di non aver mai incontrato un musulmano prima ed aggiunge: “Devo ringraziare Facebook perché mi dà la vera informazione in Birmania”.
I messaggi dei media sociali hanno portato avanti gran parte della rabbia in Birmania. Sebbene sia solo di pochi anni l’accesso ai cellulari, la penetrazione dei telefonini è ora del 90%. Per tanti Facebook è la sola fonte di notizie ed hanno poca informazione sul come distinguere le notizie false dalle notizie credibili.
Un messaggio molto condiviso su Facebook mandato da un portavoce dell’ufficio di Aung San Suu Kyi sottolineava che i biscotto distribuito dall’agenzia dell’ONU, la FAO, era stato trovato in un campo di addestramento dei militanti Rohingya. Il messaggio fu definito “irresponsabile” dalle Nazioni Unite.
Il governo birmano comunque insiste a dire che la gente ha bisogno di essere guidata. “Facciamo qualcosa che chiamiamo educare le persone” dice U Pe Myint, ministro dell’informazione. Riconosce che “sembra piuttosto una forma di indottrinamento come in uno stato autoritario o totalitario”.
Questo mese U Pe Myint ha radunato i giornalisti birmani per discutere quello che chiama “notizie inventate” da parte dei giornalisti stranieri e la “guerra politica” in cui i gruppi dell’aiuto internazionale favoriscono i Rohingya.
Lo scorso mese una folla a Sittwe ha attaccato i lavoratori della Croce Rossa i quali caricavano una barca di rifornimento che le persone del posto credevano sarebbero andati ai Rohingya.
Persino tra i rappresentanti che avrebbero potuto sostenere i diritti umani la frustrazione si è diretta sulla critica estera. Con calma qualcuno difende Aung San Suu Kyi che non ha sfidato i militari e non ha protetto i Rohingya affermando che sarebbe stato un suicidio politico in un paese dove l’ odio verso i Rohingya è così diffuso. Considerano, ad essere buoni, che la recente pressione internazionale ignora la complessità nazionale, se non addirittura intenta a rallentare lo sviluppo del paese.
“Chiediamo alla comunità internazionale di riconoscere che questi musulmani sono immigrati clandestini del Bangladesh e che questa crisi è una violazione della nostra sovranità” dice U Nyan Win, portavoce del NLD, il partito al governo. “Questa è la cosa più importante della questione Rakhine.”
U Ko Ko Gyi, che ha passato 17 anni in carcere sotto il regime dei militari, ha evocato anche gli interessi nazionali e dice:
“Siamo stati coloro che hanno difeso i diritti umani per anni e abbiamo sofferto per tanto tempo. Ma su questa questione siamo uniti perché abbiamo bisogno di sostenere la nostra sicurezza nazionale”
Poi aggiunge: “Siamo un piccolo paese che si trova tra India e Cina, ed il DNA di nostri antenati è di provare a lottare per la sopravvivenza. Se ci criticate troppo dall’Occidente allora ci spingerete nelle braccia della Cina e della Russia”
Il mese scorso quei due membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU protessero la Birmania dal tentativo di condannare i militari birmani per l’offensiva condotta nel Rakhine.
La situazione umanitaria è diventata disperata dentro il Rakhine mentre il governo blocca ancora l’aiuto umanitario.
Per tutto lo stato i cittadini Rakhine sono stati messi in guardia dai capi comunità a non interromper il blocco. Lo scorso mese a Myebon, nel Rakhine centrale, le militanti femministe hanno impedito ai gruppi dell’aiuto internazionale di consegnare l’assistenza ad un campo di internamento dove migliaia di Rohingya sono confinati sin dalle violenze etniche del 2012.
Ma il guidatore di triciclo U Tun Tin aveva bisogno di denaro e di consegnare alimenti per i Rohingya nel campo. Appena dopo sua moglie Daw Soe Chay ha detto di essere stata accostata da una folla che l’ha costretta ad andare nel monastero vicino.
Dentro il recinto religioso la picchiarono e le tagliarono i capelli. Poi la folla la portò in parata attraverso Myebon con un cartello su cui era scritto, “traditrice nazionale”.
Nonostante quello che ha dovuto passare la moglie, Tun Tin non si pente di aver mandato i rifornimenti al campo dove le razioni per i Rohingya cominciano a scarseggiare.
“Sono esseri umani. Hanno bisogno di mangiare proprio come noi”.
HANNAH BEECH, NewYorkTimes