Papa Francesco deve delle scuse formali al popolo timorese

La visita di Papa Francesco a Timor Est offre l’occasione per fare scuse formali al popolo timorese per i torti storici

Era attesa da tanti anni la presenza di Papa Francesco a Timor Est dove il 98% della popolazione di 1,3 milioni di persone è cattolica, in un paese che ha sempre tenuto legami profondi con la Santa Sede con relazioni diplomatiche che hanno rafforzato questo legame.

Papa Francesco deve delle scuse formali al popolo timorese

La gente di Timor Est hanno apprezzato tanto l’assistenza che la Santa Sede ha dato nella storia della sua crescita sia nel periodo coloniale che durante l’occupazione indonesiana.

Uno dei gesti più significativi di sostegno fu il riconoscimento della Santa Sede della Conferenza Episcopale Timorese all’interno del Vaticano come entità distinta e separata dalla Conferenza Episcopale Indonesiana.

Questo riconoscimento fu una convalida della nostra lotta per l’indipendenza. Non si può esprimere gratitudine maggiore per la protezione della Chiesa e l’aiuto in quei tempi difficili. La Chiesa Cattolica ha offerto rifugio a chi ne aveva bisogno spesso con il rischio enorme per i propri membri.

Inestimabili sono i contributi della chiesa per la sanità e l’istruzione a Timor Est creando un lascito di servizio che la gente di Timor Est apprezza profondamente e non può mai essere ripagata.

La visita papale è un gesto più che simbolico, ci ricorda profondamente che la Santa Sede non ha dimenticato la gente di Timor Est che si ha contato sul sostegno della chiesa durante le ore più dure.

Nell’accogliere il papa, questa occasione è anche il momento per affrontare alcune questioni persistenti che hanno a che fare con la fondazione e operatività della Chiesa Cattolica a Timor Est.

La prima questione è l’appropriazione intellettuale della Chiesa con il cooptare la terminologia indigena quali “Maromak” e “Maromak Oan,” adattandoli alla dottrina cristiana per rappresentare il Dio Cristiano maschio e patriarcale.

Tradizionalmente tra le popolazioni Tetun Terik, Maromak rappresenta alla dea della fertilità, figura centrale nella loro vita spirituale e agricola. In modo simile Maromak Oan è l’appellativo sacro del capo più alto spirituale nel dominio rituale dei Wehali che storicamente furono il centro rituale dell’isola di Timor prima dell’arrivo degli Europei.

All’interno della chiesa Maromak Oan è ora usato per riferirsi a Gesù Cristo. Nell’appropriarsi di questi termini la Chiesa ha cambiato in modo significativo oscurandolo il sistema di credi indigeno. Questo atto di furto intellettuale ha fatto più che adottare il vocabolario indigeno; ha ridefinito fondamentalmente il panorama spirituale cancellando i significati originali e i contesti di questi termini.

La Chiesa rafforzò tutto ciò etichettando i timoresi come “selvaggi senza dio”, una narrazione che persiste fino ad oggi. Questa eredità di appropriazione e marginalizzazione continuano ad avere implicazioni profonde.

La paura della censura della Chiesa ha reso difficile reintegrare i concetti di Maromak e Maromak Oan nei programmi scolastici. Educatori e comunità esitano a reclamare questi termini nel loro originale contesto indigeno, stanchi dell’influenza potente della Chiesa.

Quindi le azioni storiche compiute dalla Chiesa continuano ad avere un impatto sull’educazione culturale e spirituale dei cittadini di Timor Est ostacolando gli sforzi per preservare e insegnare il loro patrimonio.

La seconda questione ha a che fare con l’appropriazione ed uso del termine Lukik. La relazione della Chiesa con il termine Lukik esemplifica la sua ipocrisia profonda. Da un lato i capi della Chiesa ammoniscono i cattolici a non credere nel Lulik, a non adorarlo, e dichiarano che Uma Lulik una cosa del diavolo, Satana.

Lulik, il concetto sacro che sorregge la spiritualità timorese, è condannato e denigrato come qualcosa di maligno e incompatibile con gli insegnamenti cristiani. Tuttavia, in forte contrasto a questa denuncia gli stessi capi della Chiesa sono chiamati con termini come Amu Lulik o Nai Lulik, appellativi che hanno connotazione sacra dello stesso concetto che denunciano.

Questi appellativi, che sono pregni di rispetto e reverenza all’interno della cultura timorese, sono accettati con orgoglio da quelle stesse figure della Chiesa che si crogiolano nell’onore che viene con l’essere associati con esso.

Questa contraddizione non è solo una questione semantica ma è un riflesso di una appropriazione culturale e spirituali più vasti che la Chiesa ha praticato.

Lulik non è solo una parola ma è l’essenza della vita e spiritualità timoresi ad includere credi, pratiche ed un profondo legame con il sacro. L’uso selettivo della Chiesa del termine rivela un tentativo per cooptare e controllare i concetti indigeni mentre simultaneamente li mina e li demonizza.

Lo scrivente fa il dottorato sul concetto di Lulik nell’università di Melbourne ed è preso dall’esplorazione del vero significato di questo concetto all’interno della cultura timorese.

La ricerca del sottoscritto mira a scoprire e reclamare la comprensione del Lulik nella speranza che contribuirà anche ad un riconoscimento più largo e rispetto per la spiritualità timorese sia nel panorama culturale passato che presente.

La terza questione sono i programmi di assimilazione forzata implementati dalla Chiesa nel periodo coloniale con il colonialismo portoghese e con l’occupazione indonesiana con cui la Chiesa collaborò attivamente per applicare un programma sistematico di assimilazione forzata.

Questo programma era disegnato a togliere alla gente di Timor Est le proprie identità indigene e sostituirle con quelle che si conformavano agli standard dei colonizzatori di ‘civilizzazione’. Uno degli impatti più pervasivi e duraturi di questo programma è la diffusa adozione dei nomi portoghesi. Quando si battezzavano i bambini, la Chiesa si rifiutava categoricamente di accettare i nomi indigeni definendoli ‘Incivili’, ‘Selvaggi’ o ‘Gentili’.

L’imposizione di nomi portoghesi non era solo una questione di conformità religiosa ma un atto deliberato di cancellazione della cultura che voleva tagliare i legami tra la gente di Timor e il proprio patrimonio culturale. Le conseguenze di questo programma di assimilazione forzata sono profonde e durature.

Molti timoresi oggi portano nomi portoghesi, spesso inconsapevoli della storia di coercizione che ha portato alla loro adozione. Inoltre, la stigmatizzazione dei nomi indigeni ha portato a un profondo senso di vergogna tra i timoresi, inducendoli a prendere le distanze dai loro nomi originali e, per estensione, dalle loro radici culturali. Questa vergogna interiorizzata testimonia l’efficacia della strategia di assimilazione della Chiesa, che ha cercato di cancellare l’identità timorese per sostituirla con una che si allineasse alla visione del mondo dei colonizzatori.

Il ruolo della Chiesa in questo programma di assimilazione forzata evidenzia il rapporto complesso e spesso complice tra istituzioni religiose e potenze coloniali. Lavorando fianco a fianco con i colonizzatori, la Chiesa non solo ha facilitato la diffusione del cristianesimo, ma ha anche contribuito al dominio culturale e alla sottomissione del popolo timorese.

L’eredità di questa collaborazione continua a plasmare la società timorese oggi, poiché i resti delle politiche coloniali persistono sotto forma di nomi, pratiche culturali e identità che sono state indelebilmente alterate da secoli di assimilazione forzata.

La Chiesa deve delle scuse formali al popolo timorese e delle spiegazioni, dato il contesto storico sopra delineato. È evidente che la Chiesa ha svolto un ruolo significativo nella soppressione culturale, spirituale e identitaria del popolo timorese.

Molti timoresi continuano a fare i conti con la perdita del loro patrimonio culturale e con la vergogna interiorizzata, instillata da secoli di colonizzazione. Mentre Papa Francesco visita la nazione, è imperativo che la Chiesa riconosca il suo ruolo in queste ingiustizie storiche.

La Chiesa deve delle scuse formali al popolo timorese, non solo per le sue azioni durante il periodo coloniale, ma anche per gli effetti duraturi di tali azioni sull’identità e sulla cultura timorese.

Queste scuse formali al popolo timorese dovrebbero essere accompagnate da una spiegazione chiara e sincera del coinvolgimento della Chiesa nell’assimilazione forzata dei timoresi, nonché dall’impegno a sostenere la rivitalizzazione e la conservazione delle pratiche e delle identità culturali timoresi.

La visita di Papa Francesco è un’opportunità unica perché la Chiesa affronti questi torti storici. Le scuse dei vertici della Chiesa invierebbero un messaggio di riconciliazione e di rispetto, riconoscendo la sofferenza e la perdita culturale subita dal popolo timorese.

Inoltre, segnerebbe un passo significativo verso la guarigione delle ferite del passato e la promozione di un rapporto rinnovato tra la Chiesa e i timoresi, basato sul rispetto reciproco, sulla comprensione e su un genuino apprezzamento per il ricco patrimonio culturale di Timor Est.

Tali scuse e spiegazioni non sono solo imperativi morali, ma sono necessarie affinché la Chiesa possa veramente adempiere alla sua missione di giustizia e compassione.

Questo atto di umiltà e pentimento non solo onorerebbe la capacità di recupero del popolo timorese, ma dimostrerebbe anche l’impegno della Chiesa a riparare i torti della storia.

Josh Trindade, UCANEWS

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