Passo falso sul palcoscenico mondiale del COP26 di Glasgow della Thailandia che non firma l’impegno a non deforestare nonostante abbia punti positivi a proprio favore
Il cambiamento climatico è la sfida più grave del nostro tempo, ha detto lo scorso lunedì il premier thailandese Prayuth alla conferenza dell’ONU sul Cambiamento climatico COP26 di Glasgow, dove ha spiegato come la Thailandia sia uno dei paesi più vulnerabili al suo effetto.
Secondo Indice globale del rischio climatico 2021, la Thailandia si pone globalmente al nono posto tra i paesi maggiormente colpiti dagli eventi atmosferici estremi legati al cambiamento climatico.
“Il tempo sta per esaurirsi e non possiamo più permetterci di essere compiacenti nel combattere il cambiamento climatico perché significa la fine del mondo come lo conosciamo” ha notato Prayuth.
Nel giro di qualche ora dal discorso di Prayuth 128 paesi tra i quali l’Indonesia ed il Vietnam, firmarono la dichiarazione dei Leader di Glasgow sulle foreste e l’uso del suolo, che mira a fermare entro il 2030 la deforestazione mentre si sostengono i piccoli contadini.
Secondo la Banca Mondiale, la copertura a foresta in Thailandia è crollata da oltre il 50% del paese nel 1961 a circa il 31% nel 2016. Uno dei primi obiettivi politici della giunta militare fu di nazionalizzare le riserve naturali del paese ordinando poi alle agenzie dello stato di reprimere coloro che sequestrano, distruggono, possiedono o causano danno alle foreste nazionali.
La giunta mirava ad accrescere la copertura a foresta al 40% in dieci anni secondo un mandato della giunta NCPO del 2014. Nei mesi successivi al golpe oltre 500 abitanti dei villaggi furono processati perché vivevano nella foresta e le ONG locali lamentarono che i militari prendevano di mira deliberatamente i poveri piuttosto che i maggiori e ricchi intrusi.
Mentre sembrerebbe che il patto di Glasgow sulla deforestazione sia in linea con gli interessi espressi o sposati dei militari, la Thailandia sotto Prayuth ha rifiutato di firmare, cosa difficile da comprendere razionalmente.
Tra il 2005 e il 2015, il Sudestasiatico ha perso 80 milioni di ettari di terra forestata, e dal momento che il 15% delle foreste tropicali mondiali sono qui, lo sguardo globale è sulla regione che resta una delle aree in cui è più attiva la deforestazione.
Il problema per alcuni paesi come Cambogia e Laos, che insieme alla Thailandia non hanno firmato il patto, è stato che il linguaggio dell’accordo non teneva conto dello sviluppo dei paesi in via di sviluppo che si basano sulle foreste per la propria crescita.
Il Laos afferma che ha ancora bisogno di ripulire le foreste per i progetti infrastrutturali e di volersi liberare del titolo di paese meno sviluppato per il 2026.
I bisogni di Vientiane non sono gli stessi di Bangkok. Il Laos si trova nella stessa situazione in cui si trovava la Thailandia vari decenni fa. 80% delle foreste del paese sono degradate e l’estrazione insostenibile di risorse naturali, oltre all’agricoltura e alle infrastrutture, spinge la deforestazione. I tassi di deforestazione della Thailandia sono di molto inferiori agli altri paesi del Mekong.
Gli esperti da tempo accusano la deforestazione sia per la maggiore sedimentazione che per la riduzione delle quantità di piogge. Nella stagione piovosa, gli effetti della deforestazione compromettono lo scolo regolare delle acque esacerbando così gli allagamenti.
I cambiamenti ambientali associati con la deforestazione restano ben oltre la ripulitura della foresta e si estendono nel sottosuolo con un forte impatto sull’accumulo di nutrienti e riciclo, sull’accumulo del Carbonio e sulle emissioni di gas serra.
Le difficoltà che ha la Thailandia a causa degli allagamenti e delle siccità dovrebbero far prendere in considerazione le politiche che ne mitigano gli effetti.
Prima del COP26, la Thailandia aveva una certa attività nei vari forum di discussione del clima. Nel 1994 il paese ratificò l’ UNFCCC ed il protocollo di Kyoto del 2002. Il piano nazionale sul Cambiamento climatico nazionale CCMP giunge fino al 2050 e dovrebbe dare un percorso per la crescita sostenibile a basse emissioni di carbonio e la resilienza climatica.
Vale la pena notare che una parte centrale del piano è un’enfasi sulla riforestazione nei prossimi dieci anni attraverso un processo più partecipativo, anche se qualunque cosa che sia solo marginalmente differente dalla sua brutale militarizzazione delle foreste del paese sarebbe un allontanamento ben accetto.
In precedenza il governo aveva mostrato preoccupazione sulla conseguenza della deforestazione sia sua biodiversità locale che sui servizi di ecosistema. Il Piano Strategico Nazionale del 2017-2036 vuole guidare il paese attraverso sei aree strategiche tra cui la crescita verde. Molti progetti sono stati messi da parte per il miglioramento dei servizi di ecosistema, per la conservazione e il pattugliamento delle foreste. La decisione della scorsa settimana si scontra con il piano di resilienza climatica.
Il comportamento della Thailandia al COP26 è stato un passo falso sul palcoscenico mondiale.
Non solo la Thailandia non si è impegnata sulla deforestazione, ma manda segnali incerti alla comunità internazionale sugli impegni più vasti del paese ad adottare strategie di riduzione di emissioni di carbonio che manterranno la temperatura globale ben al di sotto dei due gradi o di accelerare gli sforzi per limitare la crescita a solo 1,5°C.
La decisione di Prayuth lascia la situazione attuale intatta. I tassi di deforestazione sono bassi ma non sono del tutto fermi. Restano le pressioni competitive dall’agroindustria e dalla gente che vive dalla terra.
Una tendenza verso la riforestazione avrebbe effetti a valanga sui depositi di carbonio del paese, sui servizi migliorati di ecosistema, sul ripristino della biodiversità in aree vulnerabili come anche sulla riduzione dell’inquinamento.
Ed invece Prayuth è andato a Glasgow senza nulla e se ne è tornato senza nulla.
Mark S Cogan, Thaienquirer