Mercoledì a Rangoon (rinominata dalla giunta militare precedente a Yangoon) sono stato testimone di prima mano delle tensioni che afferrano non solo lo stato dell’Arakan, dove da giorni si agita una violenza di parte, ma anche ed in modo crescente altre parti della Birmania.
Camminando per la città ho visto buddisti e musulmani sorridere mentre andavano e venivano dai propri templi e moschee che erano piene di gente che pregava. Allo stesso tempo, comunque, ho notato la presenza della polizia attorno alle pagode Shwedagon e Sule, i templi religiosi più famosi della città.
“Credo che la lezione più importante che abbiamo bisogno di imparare è il bisogno del governo della legge.” ha detto Aaung San Suu Kyi, parlando delle violenze etniche e religiose in parti differenti del paese ai giornalisti, dopo un discorso in Svizzera nel suo primo viaggio all’estero dopo il suo confino nella sua casa di Rangoon 25 anni fa.
“Lo abbiamo sempre detto … il governo della legge è essenziale se dobbiamo porre termine ai conflitti nel paese. Senza di esso queste lotte comunali continueranno. Abbiamo bisogno della cooperazione di tutte le persone per porre fine a questo”.
Dietro la calma esteriore Rangoon sembra prepararsi ad uno scoppio di violenza settaria. La domanda sulle labbra di tutti è se la violenza nello stato di Arakan si diffonderà alla più grande città birmana che è la casa a genti di molte fedi, tra i quali ci sono Induisti, buddisti e musulmani. Un uomo d’affari a cui ho parlato diceva che ha abbastanza cibo e acqua a casa sua per durare un mese, nel caso servisse, confidandomi che nelle cose accumulate ci sono anche le armi.
Ma persino mentre la paura del conflitto afferra la città, ci sono molti che insistono che la situazione nello stato dell’Arakan non è proprio a causa della religione. Una figura pubblica importante, che ha preso posizione su questa vicenda, è Ko Ko Gyi, il capo della Generazione 88, che la scorsa settimana ha dichiarato
“Il problema Rohingya”, lo status della minoranza musulmana dell’Arakan, è essenzialmente un fatto di sovranità. Quando gli ho chiesto cosa volesse dire con questo, ha detto che la definizione di chi è cittadino birmano non è una cosa che spetta alle altre nazioni. Lui simpatizzava con la loro situazione, molti dei quali hanno sofferto da rifugiati in altre nazioni, ma ha aggiunto che non possono essere considerati uno dei 135 gruppi etnici birmani.
Alcuni non Birmani hanno reagito alle affermazioni di Ko Ko Gyi con una certa costernazione pensando che l’uomo da prigioniero politico avrebbe dovuto erigersi a favore dei diritti di un gruppo innegabilmente represso.
Ma nella Birmania, le sue parole sono state ben accettate e si sono diffuse rapidamente attraverso Facebook, mentre i giornali locali che riportavano le sue dichiarazioni andavano a ruba. La posizione comune tra i birmani sembra che sia di considerare i Rohingya emigranti illegali dal vicino Bangladesh, una visione che considera questa questione come una materia di sovranità piuttosto che di animosità religiosa.
In realtà molti etnici Arakan si sono risentiti di una descrizione del problema come religioso anche se molti hanno usato linguaggi razzisti e antireligiosi nei loro attacchi contro i “bengalesi”, nome preferito dato ai Rohingya. Gli arakanesi sono fieri della loro identità etnica anche nel trarre una forte linea di divisione tra sé ed i loro compatrioti buddisti, la maggioranza etnica birmana. Nella mente di molti arakanesi questa è una lotta per preservare la loro identità. Credono che se non respingono i Rohingya, la loro propria cultura sarà minacciata da un influsso di “estranei” da una nazione molto più popolosa della loro madre patria.
Per altri osservatori le preoccupazioni sono molto differenti ma non meno pressanti. Tin Oo, un capo storico della NLD, che solo pochi mesi fa è entrato in parlamento unendosi così al processo di riforma guidato dal governo, diceva di aver paura che questa violenza nello stato dell’Arakan potrebbe dilazionare questa delicata transizione ad una forma più democratica di governo.
Da vecchio comandante dell’esercito un tempo di stanza proprio nell’Arakan, Tin Oo ha detto che la regione aveva sempre avuto il potenziale per diventare la culla di una violenza settaria. Se si realizzasse quel potenziale ora sarebbe un serio passo in dietro per quelli che si battono per il bisogno di aprire ulteriormente la nazione.
Finora il presidente Thein Sein ha trattato la questione con attenzione imponendo uno stato di emergenza secondo la costituzione del 2008, per la prima volta sin dalla sua salita al potere, ma invitando tutte le parti a mettere da parte le differenze con un discorso alla televisione.
“Se rimaniamo al ciclo senza fine dell’odio e della vendetta uccidendosi a vicenda, è possibile che il pericolo si diffondi non solo nello stato dell’Arakan” aggiungendo che la democrazia ancora in fasce potrebbe essere una delle vittime della violenza.
Mi è capitato di trovarmi, durante il discorso alla televisione, con un gruppo di ex generali, ma non era assolutamente facile capire cosa pensassero della questione. Uno che mi era seduto di fianco fece il suo assenso alle parole del presidente, ma poi si zittì, come se rassegnato al ciclo della violenza che sembra alimentare un conflitto dopo l’altro nella Birmania. Molti a cui ho parlato si sono detti d’accordo sul fatto che questa era una grande sfida per Thein Sein. “Non sarà una cosa facile” ha detto un diplomatico.
Mentre non è affatto chiaro cosa succederà col presidente, alcuni osservatori sembravano sollevati, quando hanno visto permettere la visita degli ufficiali dell’ONU nella regione, con un forte contrasto all’impulso istintivo del precedente regime di nascondere la propria rob sporca dagli occhi esterni. Alcuni esperti osservatori politici sussurravano che nelle vicende forse c’è stata la mano dei duri dentro i militari benché non potessero offrire alcuna prova. Altri dicevano che i militari volevano lanciare un’operazione militare per cacciare i Rohingya senza avere però l’approvazione del presidente.
Con uno sforzo di accresciuta trasparenza, la scorsa settimana il governo ha dato vita ad un comitato che indaghi sullo stupro e l’assassinio di una donna Arakan che ha dato origine alla violenza, oltre al linciaggio di un gruppo di musulmani che ha portato ad una serie di attacchi e contrattacchi di folle Rohingya e Arakanesi.
Mentre molti birmani dicono che questa sia una mossa nella direzione giusta, a livello di strada e popolare si era più in favore d una linea dura contro i Rohingya. Molti lamentavano la corruzione di chi li ha fatti entrare i Bengalesi. Un uomo d’affari facoltoso che aveva in tutta fretta messo su una bella somma di denaro da donare agli Arakanesi dislocati dalla violenza, ha suggerito persino di costruire una forte barriera per difendere il paese da ulteriori incursioni.
Persino un veterano attivista politico si è arrabbiato nel sentire le dichiarazioni americane che esprimevano preoccupazione sul problema dei Rohingya. “Voglio sapere come gli Usa affrontano il loro confine col Messico e come hanno trattato i musulmani dopo l’undici settembre.” diceva con rabbia.
Di fronte ad un’assenza di informazioni di prima mano su quello che attualmente succede nello stato dell’Arakan, in parte per gli sforzi del governo di controllare i media “irresponsabili”, e per la mancanza di un dibattito salutare e razionale sullo status dei Rohingya, sembra improbabile che la situazione migliorerà subito. Ed è una cattiva notizia per tutti. (Aung Zaw, Irrawaddy.org , Asiasentinel)
La Birmania occidentale sta bruciando. Perché
Un episodio iniziale naturalmente: il 28 maggio una donna arakanese di 26 anni di nome Thida Htwe fu violentata ed uccisa, presumibilmente da tre giovani Rohingya musulmani nello stato Arakan essenzialmente buddista.
Perché brucia?
La punizione ovviamente: il 3 di giugno, sei giorni dopo, una folla di 300 buddisti arakanesi fermò un bus, tirò fuori dieci pellegrini musulmani e li bastonò fino alla morte. Le vittime, che non erano Rohingya, erano di ritorno alle loro case a Rangoon.
Perché brucia?
I media ed i social media ovviamente: alcuni utenti di internet senza alcuna sensibilità hanno messo fotografie della strage iniziale sui loro profili di Facebook. Questi si sono diffusi rapidamente agitando gli altri utenti a condividere risposte emotive. Un settimanale birmano, Snapshots, di base a Rangoon, ha persino pubblicato una foto del cadavere della donna, Thida Htwe, col collo tagliato. Più tardi il settimanale fu sospeso indefinitamente dalla Divisione di Sicurezza e di registrazione della stampa del Ministero dell’Informazione che ha incriminato la pubblicazione con l’accusa di diffondere un resoconto che accende gli animi.
Perché brucia?
Un altro giro di vendette, naturalmente: l’otto i giugno, oltre un migliaio di Musulmani Rohingya arrabbiati nella cittadina di Maungdaw, lungo il confine col Bangladesh, aveva distrutto 22 villaggi a predominanza buddista dopo le loro preghiere del venerdì attaccando i residenti e bruciando le loro case. Secondo le cifre ufficiali furono uccise 7 persone, 17 seriamente ferite e 500 case e negozi distrutti. E’ stato a questo punto che la situazione dell’Arakan si èp infiammata davvero. Le autorità hanno emesso un coprifuoco benché il giornale governativo The New Light of Myanmar abbia detto nel suo resoconto il giorno successivo che più di mille “terroristi” avevano acceso i disordini nell’oscurità.
Perché brucia?
Discorsi di odio, naturalmente: il 5 giugno i giornali di stato Kyemon e Myanmar Ahlin usavano la parola offensiva Kalar per riferirsi ai musulmani nei loro rapporti della violenza dell’Arakan. Il giono dopo fu fatta una correzione dopo le critiche su Facebook al direttore generale del Dipartimento dell’Informazione e delle Pubbliche Relazioni del governo. Invitò la gente a non usare simili parole per evitare di infiammare ulteriormente il conflitto. La parola “terrorista” è divenuta popolare nel brutto linguaggio tradizionale. “Gli accadimenti recenti nella Birmania Occidentale hanno creato un uragano di odio nel mondo online.” diceva Nicholas Farrelly del New Mandala.
Perché brucia la Birmania Occidentale?
La stessa storia dell’Arakan, ovviamente. Il conflitto nello stato risale fin dove si vuole porgere lo sguardo I Rohingya dicono che le loro origini risalgono all’ottavo secolo quando i primi arabi musulmani arrivarono nello stato dell’Arakan da commercianti, sebbene alcuni storici neghino che ci siano connessioni tra i primi arabi e i Rohingya.
Di contro gli arakanesi dicono che il termine Rohingya non esisteva prima degli anni 50. Secondo lo storico Maung Maung, la parola Rohingya non la si può ritrovare nel censimento fatto dagli inglesi nel 1824. Nei secoli XV e XVI l’Arakan era un principato indipendente e casa sia per i buddisti che i musulmani. Dopo la guerra anglo birmana del 1824-26 nella Bassa Birmania, compreso lo stato dell’Arakan, decine di migliaia di migranti dalla British India furono portati per lavorare nei campi di riso del luogo.
Ci furono varie rivolte al tempo tra i Rohingya e gli arakanesi che erano allora considerati Bengalesi. Uno dei disordini maggiori accadde nel 1942 che lasciò sul terreno varie migliaia id Musulmani ed oltre ventimila arakanesi. Questa brutta storia non sembra finita.
Perché brucia?
Mancanza del governo della legge, naturalmente: in una settimana 29 persone, tredici arakanesi e 16 Rohingya, sono state uccise; 2500 case bruciate e 31 mila persone spostate, secondo le cifre ufficiali.
Il governo della legge è un problema che il capo dell’opposizione Aung San Suu Kyi ha sempre sottolineato. “Senza di esso la violenza interna può solo continuare. La situazione attuale dovrà essere trattata con delicatezza e sensibilità e abbiamo bisogno di cooperazione di tutte le persone coinvolte per ricostruire la pace che vogliamo per il nostro paese.”