Affrontare le radici del conflitto nel profondo meridione thailandese per dare fondamenta e fiducia agli sforzi dei negoziati di pace
La regione più meridionale della Thailandia è sede di uno dei conflitti più lunghi dell’Asia, dove emerse negli anni 60 un movimento separatista che provò a ritagliare questa regione a maggioranza musulmana come uno stato indipendente.
Nel corso del conflitto si sono avuti differenti livelli di violenza e la più recente insorgenza è sorta agli inizi degli anni 2000.

Nonostante decenni di un prolungato conflitto armato, c’è una ragione recente per essere ottimisti.
Un numero crescente di persone parlano del bisogno di andare al di là della gestione del conflitto verso la trasformazione del conflitto per affrontare le cause radicali dell’insorgenza.
Inoltre governo e negoziatori di pace dei ribelli come anche i facilitatori malesi dei negoziati stanno esplorando i modi per andare al di là delle misure di costruzione della fiducia e sollevare questioni più concrete e di sostanza.
Le radici del conflitto
Il conflitto si radica profondamente nelle tensioni e nella sfiducia storiche.
Questa regione di lingua malay conosciuta come Patani, giunse dopo la propria sconfitta sotto il controllo del Siam nel 1785, l’odierna Thailandia.
Sin dagli inizi del XX secolo la Thailandia a maggioranza buddista ha perseguito in modo aggressivo una politica di assimilazione che la popolazione Malay rigetta come una infrazione della propria identità culturale e religiosa.
In molti di questa comunità ritengono che la regione appartenga alla gente Malay e che la comunità abbia un obbligo morale di liberarla dalle forze di invasione siamesi/thai.
Mentre alla fine della guerra fredda svaniva il sostegno all’insorgenza da parte dei paesi arabi, scendeva anche la violenza nella regione.
Nel periodo tra la fine degli anni 80 ed i primi anni 90, i combattenti deposero le armi e tornarono nei loro villaggi, mentre il comando del movimento restava all’estero dopo aver chiesto asilo e cittadinanza nei paesi stranieri.
I politici thai assunsero in modo errato che l’assenza di violenza significasse che si era giunti alla pace, mentre continuava però a persistere nella regione la narrazione storica e culturale Malay della liberazione.
A metà del 2001 comparve una nuova generazione di combattenti che lanciavano attacchi regolari sulle posizioni della sicurezza thai.
A gennaio 2004 l’insorgenza fece un salto di livello dopo che decine di combattenti attaccarono una base militare scappando con oltre 350 armi.
Fu questo l’incidente che spinse il riconoscimento ufficiale di Bangkok di una nuova insorgenza nella regione, perché i rappresentanti non riuscivano più a negare la base politica degli attacchi.
Il governo rispose suggellando la frontiera e ponendo vari distretti sotto il coprifuoco e impiegando un grande numero di militari nella regione.
Da allora sono morte oltre 7000 persone a causa della violenza legata all’insorgenza.
Come la Thailandia risponde all’insorgenza
Le operazioni thai di controinsorgenza coinvolgono un approccio a due braccia fatto di sviluppo e sicurezza. Entrambi non sono riusciti ad accattivarsi la popolazione né ad affrontare le cause radicali dell’insorgenza.
Il conflitto è legato al rigetto della politica di assimilazione della Thailandia e alla ricerca dell’indipendenza dei Malay di Patani. I militanti continuano a godere del sostegno della popolazione malay musulmana particolarmente di quella dei villaggi remoti. Negli anni i vari governo thai hanno approcciato di nascosto i paesi vicini e le ONG internazionali per mediare il conflitto.
Nulla di tutto ciò ha avuto un qualche peso perché i colloqui si tenevano essenzialmente con capi separatisti in esilio che non controllavano più i combattenti sul campo.
Per quanto attiene al BRN, Fronte Nazionale rivoluzionario, il gruppo armato che virtualmente controlla oggi i combattenti in campo, l’indipendenza continua ad essere un valore sacro ed obiettivo non negoziabile.
Per anni l’atmosfera non è stata favorevole alla pace mentre nessuna delle parti voleva fare concessioni.
Da paese che non è stato mai colonizzato, la Thailandia non ha mai considerato seriamente di cedere territori su cui reclama la sovranità.
Ma a gennaio 2020, quasi venti anni dopo quella rapina che accese l’attuale ondata di insorgenza, il BRN e il governo thai hanno deciso di sedersi al tavolo dei colloqui facilitati dalla Malesia.
Le due parti hanno tenuto incontri faccia a faccia su questioni tecniche e per esplorare misure di costruzione della fiducia. Poi il Covid-19 colpì la regione a marzo 2020 spingendo la discussione online.
L’atto di fede dei ribelli
L’iniziativa di pace lanciata a gennaio 2020 regge su fondamenta incerte.
La potente ala militare del BRN non crede che l’atmosfera favorisce dei negoziati formali di pace. Inoltre ha paura che il movimento abbandoni il suo obbligo morale a liberare la nazione.
Alla fine del 2019 si parlava moltissimo di una divisione nel BRN finché un giovane gruppo di militanti politici di The Patani, che cerca la autodeterminazione nella regione, convinse l’ala militare del BRN a pensarci su.
Sebbene sia un critico di questa ultima iniziativa di pace, il presidente di The Patani, Artef Sokho, ha temuto che una divisione nel movimento potesse causare una crescita della violenza col rischio di maggiori pericoli per la popolazione civile.
Artef invitò i capi del BRN, l’ala militare in particolare, ad essere moralmente superiori ed esplorare nuove idee per portare avanti la propria causa, particolarmente con mezzi non militari.
Questi consigli portarono a due grandi annunci.
Il 19 febbraio 2020 i rappresentanti dei consigli politici e militari del BRN firmarono l’ “Atto di impegno per la protezione dei bambini dagli effetti dei conflitti armati” con Geneva Call, ONG che lavora nel mondo sulle regole di ingaggio e altre questioni umanitarie.
A marzo 2020 la regione divenne un focolaio della pandemia del COVID-19 quando in centinaia si infettarono dopo che un gruppo di missionari musulmani tornarono da Indonesia e Malesia con la malattia. In risposta alla richiesta di Antonio Guterres, segretario generale dell’ONU, di un cessate il fuoco generale durante la pandemia, il BRN ad aprile 2020 annunciava il cessate il fuoco unilaterale per permettere al personale medico e ai lavoratori umanitari di accedere all’area e fare quanto necessario per combattere la pandemia.
Mentre il BRN si prendeva qualche encomio silenzioso dalla comunità internazionale per le sue aperture, l’esercito thai non ne fu contento e rispose piuttosto con grave forza usando elicotteri, droni e pattuglie di riconoscimento di lunga distanza.
Fu un duro rammentare per il BRN che nulla viene senza sforzi in questa regione contestata da sempre.
Inoltre le iniziative di pace mancavano del sostegno del comandante dell’esercito Apirat Kongsompong che considerava gli insorti come niente più di criminali.
Prospettive di pace
Sebbene la storia ci inviti a non scommettere sulla pace, ci sono anche delle ragioni per essere ottimisti.
Apirat se ne è andato in pensione ad ottobre permettendo l’entrata di un nuovo comando che appare più conciliante con i negoziati di pace. Inoltre l’ala militare del BRN sta esplorando metodi non militari per portare avanti la propria causa.
Questo non vuol dire che il processo di pace sia al sicuro. L’ala militare del BRN deve essere ancora convinta che c’è molto da guadagnare dal processo di pace ma vuole dare tempo ai negoziatori per provare che si sbagliano.
Sebbene la pandemia abbia la potenzialità di far deragliare il processo di pace, i negoziatori delle due parti sono riusciti a mantenere il momento adattandosi ad un forum online.
La piattaforma è stata alquanto difficile per i negoziatori del BRN che avrebbero preferito discutere questioni sensibili, come il cessate il fuoco nel recente Ramadan, a quattro occhi.
Artef ha detto che non ci si deve attendere troppo dai negoziatori del BRN perché non hanno influenza significativa sui combattenti e rischiano di diventare irrilevanti se fanno qualcosa di contrario all’ala militare.
BRN e negoziatori thai si trovano ad un incrocio mentre cercano di passare dalle misure di costruzione della fiducia ad un forum in cui si possono discutere questioni di sostanza.
La risposta alla pandemia presenta un’opportunità per cooperare dal momento che entrambe le parti riconoscono di dover incoraggiare la popolazione Malay in particolare ad iscriversi per vaccinarsi.
Separatamente un numero crescente di alti esponenti del governo thai dentro e fuori dell’arena politica iniziano a parlare del bisogno di abbracciare la trasformazione del conflitto, una teoria di costruzione della pace che va oltre la risoluzione del conflitto e gestione del conflitto per concentrarsi sulle condizioni sottostanti che in primo luogo fanno sorgere il conflitto.
Se l’attuale o i futuri governi thai avranno la volontà politica di identificare esplicitamente le strutture sociali e le dinamiche che causano il conflitto e se saranno abbastanza coraggiosi da cambiarle, questo è tutto da vedere.
Il fatto però che le due parti opposte stiano parlandosi, persino su fondamenta incerte, suggerisce che dopo tutto c’è speranza di vedere iniziative di costruzione della pace in questa regione inquieta.
Don Pathan USIP.org