Si potrebbe ritenere strano questo colpo di stato del Tatmadaw birmano che ha cacciato Aung San Suu Kyi perché, dopo tutto, non accade spesso che un premio Nobel difenda una campagna genocida contro i Rohingya apolidi davanti alla corte di giustizia de L’Aia.
Per il Tatmadaw, la bastonata che il partito NLD di Suu Kyi ha inflitto alle elezioni di novembre al USDP legati ai militari non fu solo un’umiliazione, ma una minaccia esistenziale.
NLD ha vinto 86% dei seggi contestati nelle due camere del parlamento, mentre USDP appena 5%.
Persino col 25% dei seggi parlamentari assegnati per costituzione ai militari, Suu Kyi si stava avvicinando pericolosamente ai tre quarti dei seggi totali necessari per cercare un referendum ed emendare la costituzione per cancellare gli articoli che definiscono il ruolo politico dei militari.
Nel lanciare il golpe i militari annunciarono che restavano al potere per un anno prima di dare il potere ad un governo civile. Una cosa improbabile. Ci si potrebbe attendere una situazione simile a quanto accaduto in Thailandia dopo il golpe del 2014 mentre il generale Min Aung Hlaing adocchia la presidenza con un governo distintamente di minoranza.
Il golpe avrà ripercussioni negative per i Rohingya apolidi.
La democrazia in Myanmar non ha fatto nulla per i Rohingya. L’apertura della stampa aprì la strada dei discorsi d’odio, e c’era da prendere pochi voti se si difendeva la tanto ripugnata minoranza etnica. Si ricordi che l’elezione di novembre non si tenne in parti dello stato Rakhine per l’insorgenza presente lì.
Cosa comporta questo golpe per i Rohingya apolidi?
Sono oltre un milione i rifugiati Rohingya che vivono nei squallidi campi in Bangladesh una situazione difficilissima da affrontare. Come era improbabile che un governo civile di Suu Kyi avrebbe permesso il ritorno dei Rohingya in massa, ora qualunque ritorno è senz’altro impossibile da prevedere nel breve periodo.
I colloqui per i rimpatri si sono prolungati ed i pochi accordi di principio non sono stati applicati. Due incontri, di novembre 2018 e agosto 2019, sono finiti male.
Sono tornati solo 460 rifugiati tra il 2018 e la fine del 2020. Myanmar pareva voler accettare il ritorno di appena 550 Rohingya induisti, ma il Bangladesh teme che quello sia il punto dove si fermano i rimpatri se dovesse accettare.
Il governo di Myanmar si rifiutò di dare ai Rohingya che tornavano la cittadinanza, i diritti di residenza o altre protezioni legali. Le foto satellitari mostrano che i militari costruiscono i campi nei villaggi Rohingya che rasero al suolo.
Allo stesso tempo sarebbe ingenuo credere che il governo di Suu Kyi avrebbe accelerato il ritorno dei Rohingya.
La ultranazionalistica NLD è il partito dominante che rappresenta gli interessi dei cittadini di etnia Birmana che rappresenta 68% della popolazione.
La maggioranza degli etnici birmani accettano la linea del Tatmadaw che i Rohingya non hanno diritto alla cittadinanza e che sono immigrati birmani illegali. Suu Kyi aveva mostrato poco interesse nel contrastare questa narrazione e pubblicamente negò la pulizia etnica e le prove di stupri diffusi delle donne Rohingya.
Il suo governo espresse poca volontà a riprendere altri rifugiati nel novembre 2020. NLD fu restio a rivelare le loro intenzioni sull’emendamento della legge della cittadinanza del 1982 preferendo altri emendamenti costituzionali.
Si è tenuto a gennaio scorso un terzo incontro per il rimpatrio senza grandi risultati. Il Bangladesh accusò Myanmar di non essere riuscita ad accelerare i controlli di sicurezza, mentre Myanmar rigettava la richiesta di un ritorno a seconda dei villaggi.
Dopo il golpe, non è chiaro quando e se riprenderanno i colloqui. Il Bangladesh sembra rassegnato ad un blocco prolungato e continua la ricollocazione di 100 mila rifugiati nell’isola di Bashan Char.
Mentre il Tatmadaw potrebbe continuare a permettere il ritorno di qualche pugno di rifugiati, loro saranno confinati nei campi. Il governo birmano emette a chi ritorna delle Carte di Identità Nazionale che li definisce come apolidi, ma non è chiaro se li autorizza ad un percorso di cittadinanza oppure offre altre protezioni legali.
Per coloro che vivono nei campi, crescerà solo il loro senso di disperazione, e questo è una buona notizia per militanti del ARSA che così traggono benefici dalla disperazione della gente. L’appartenenza a gruppi armati permette una qualche protezione ed accesso alle risorse scarse.
Se la giunta diventa più intransigente sui rimpatri, allora il Bangladesh ha meno alternative accettabili. C’è un commercio bilaterale limitato. La giunta è già isolata diplomaticamente e resiliente alle pressioni esterne.
Tutto ciò lascia a Dhaka uno strumento che finora è parsa riluttante ad usare: armare di nascosto, direttamente o meno, gruppi come ARSA e il gruppo messo meglio del Arakan Army. Questo comporta dei rischi per il Bangladesh, il maggiore dei quali è la cessazione totale di colloqui di rimpatrio.
Sembra improbabile che Tatmadaw riprenderà i colloqui per salvaguardare la loro reputazione internazionale e per qualche sanzione in meno. I generali hanno già calcolato i costi diplomatici del loro golpe.
E’ un regime del tutto indifferente alla critica internazionale della loro storia dei diritti umani. I capi sono stati già sanzionati ed il paese è pieno di soldi illegali. Hanno calcolato che paesi come la Cina li aiuteranno ad evadere le sanzioni e che ASEAN non le farà valere.
I militari si rivolgeranno probabilmente a qualche monaco rabbioso, come era Wirathu e al violentemente antimusulmano Ma Ba Tha per legittimare la loro presa del potere, Gran parte del clero buddista probabilmente parteggerà con la popolazione con la crescita della mobilitazione antigolpe.
Ma una parte del clero potrebbe vederla come una opportunità e sostenere il regime per prevenire ogni rimpatrio dei Rohingya oltre a fomentare repressioni contro altri musulmani e minoranze religiose.
Zachary Abuza BenarNews.