Il sudestasiatico nella Nuova Via della Seta cinese

Turbata dalla ascesa del protezionismo commerciale in occidente e da una crescita anemica a casa propria, la Cina ha intrapreso un grande progetto di infrastrutture che mirano a ricreare l’ordine economico mondiale secondo la propria immagine. L’estensione e l’ambizione insite nel “Belt and Road Initiative”, BRI, conosciuto anche come La nuova Via della Seta, ha acceso dei paragoni con il Piano Marshall del secondo dopoguerra che diede un aiuto fondamentale alla rinascita europea giocando un ruolo definitivo nel cementare l’egemonia globale di Washington.

La Cina ha lanciato il BRI, la Nuova Via della Seta, con un summit a Pechino il 14 maggio definito l’evento diplomatico più grande dell’anno. I delegati di circa 100 nazioni hanno portato almeno 29 capi di stato e di governo tra i quali il russo Putin e il turco Erdogan. Nel suo messaggio di indirizzo il presidente Xi Jinping ha difeso l’integrazione economica promettendo che la Cina “costruirà una piattaforma aperta” e “difenderà e svilupperà un’economia mondiale aperta” contro il crescente protezionismo.

A gennaio Xi Jinping fu il primo capo di stato cinese a presenziare al WEF di Davos dove fece un intervento simile in cui descrisse la globalizzazione come “un grande oceano da cui non si può scappare” e definendo ogni tentativo di innalzare barriere come “il rinchiudersi in una stanza oscura”. Paradossalmente il regime comunista principale al mondo comincia a presentarsi, con una ramanzina neanche tanto sottile all’occidente, come la nuova avanguardia della globalizzazione economica.

Il progetto della Nuova Via della Seta ha trovato un ascolto favorevole tra i paesi del sudestasiatico che hanno un bisogno disperato di capitali e tecnologia per affrontare le loro crescenti problematiche infrastrutturali.

La decisione di Washington di tirarsi indietro dal TPP ha portato gli stati della regione nelle braccia cinesi. Presenti al summit di Pechino c’erano importanti capi di stato della regione, come Rodrigo Duterte dalle Filippine, Joko Widodo dall’Indonesia e Najib Razak dalla Malesia.

Nonostante gli obiettivi nobili al forum, c’era un persistente disagio regionale sulla dipendenza economica sempre più profonda dal colosso cinese con le sue implicazioni geopolitiche. Questa è la ragione per cui il primo ministro di Singapore Lee Kwan Yew ha spinto l’America a perseguire più accordi di libero commercio nella regione per dare agli stati più piccoli opzioni diverse da quella cinese. Eppure se l’occidente ed il Giappone non si prendono le loro responsabilità, la Cina è ben destinata a reclamare un’egemonia economica nel proprio vicinato.

la nuova via della setaSecondo tutte le indicazioni, la Cina sembra seria nella sua grandiosa visione di una moderna via della seta. Un anno dopo l’annuncio dei suoi piani, nel 2014, Pechino istituì il Gruppo di Guida che si rapporta direttamente al governo cinese. A guidare il gruppo, in cui vi è anche l’ex ministro degli Esteri Yang Jiechi, è il vice presidente Zhang Gaoli.

La Cina ha creato un fondo iniziale della via della seta di 40 miliardi di dollari. Altri 50 miliardi di dollari saranno dati dalla Banca di Investimento Infrastrutturale Asiatica cinese.

Durante il summit, Xi Jinping ha promesso altri 113 miliardi di dollari, mentre banche di stato cinesi investirebbero fino a 1.3 migliaia di miliardi di dollari nei prossimi decenni per ravvivare l’antica via della seta con un gusto da ventunesimo secolo.

La Cina vuole connettere il proprio cuore industriale direttamente con l’Europa Occidentale con una nuova rete di autostrade, porti e ferrovie che percorrono l’Asia centrale, il Medio Oriente e l’Europa Occidentale, come pure il sudestasiatico, Asia Meridionale e l’Africa.

Secondo la Banca di Sviluppo Asiatica, l’Asia nel prossimo decennio combatterà con un gap di spesa infrastrutturale da 8 mila miliardi di dollari. I paesi in via di sviluppo in Asia hanno bisogno di 1.7 migliaia di miliardi di dollari all’anno per coprire i loro bisogni infrastrutturali, ma allo stesso tempo hanno una capacità fiscale limitata mentre le istituzioni multilaterali come la Banca Mondiale, l’IMF e la ADB sono tremendamente sottodimesnionate rispetto alla scala della sfida delle infrastrutture. Non c’è da meravigliarsi che almeno 60 paesi abbiano espresso interesse ad unirsi a progetto cinese.

Per la Cina, che ci si aspetta addossarsi gran parte dei costi, il BRI ha senso come un modo per superare la sovraccapacità infrastrutturale in patria, aiutando le imprese di stato a trovare nuovi progetti, ad investire in modo più proficuo in riserve estere, nel trovare nuovi mercati e ridurre i costi di transazioni per le proprie esportazioni.

Nel decennio scorso stati della regione come Malesia e Thailandia sono stati tra i maggiori beneficiari dei progetti guidati dai cinesi. Più di recente comunque, le economie in crescita indonesiana e filippina hanno cercato buttarsi nella mischia.

Con Duterte per esempio, le Filippine hanno lanciato un’iniziativa chiamata Dutertenomics che mira a riattivare la decrepita pubblica infrastruttura del paese con un costo di 167 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni. Si attende che la Cina sia la fonte importante di finanziamento per 12 progetti dal valore di 4.4 miliardi di dollari.

Comunque, come ha messo in guardia l’agenzia Fitch Rating, il problema con il BRI è che “i bisogni infrastrutturali genuini e la logica commerciale potrebbero essere secondari rispetto alle motivazioni politiche”. Durante il Summit di Pechino, la Cina ha offerto alle Filippine un prestito di 500 milioni di dollari per acquisto di armi, sottolineando la logica geopolitica del progetto.

Nel passato i grandi progetti infrastrutturali cinesi nelle Filippine sono stati colpiti da anomalie di offerta e scandali di corruzione. Altri paesi hanno sollevato preoccupazioni sull’adesione cinese ai regolamenti ambientali e la tendenza ad affidarsi quasi interamente a manodopera cinese, oltre al proprio capitale e tecnologia.

Nelle Filippine, come dovunque, alcuni sono preoccupati sull’affidarsi eccessivamente ai prestiti ad alto interesse della Cina, cosa che potrebbe portare il paese in un “legame da debito” con sfavorevoli implicazioni geopolitiche.

Secondo tutte le implicazioni, l’offensiva affascinante legata alle infrastrutture della Cina sembra funzionare. Dalla sua ascesa alla presidenza filippina, Duterte non solo ha declassato la cooperazione militare con gli USA, ma ha anche declassato le dispute territoriali nel mare cinese meridionale con la Cina. Da presidente di turno dell’ASEAN, ha protetto la Cina dalla critica per le sue massicce attività di reclamo del suolo in quelle acque.

Ancora una volta, Duterte ha sottolineato la necessità di ravvivare le relazioni economiche con la Cina che lui ha descritto come partner per lo sviluppo nazionale. Per la gioia di Pechino, il presidente filippino ha rifiutato con forza di sollevare le dispute territoriali con la Cina durante l’incontro con Xi Jinping negli incontri al margine del summit della Nuova Via della Seta.

Alla fine, la preoccupazione maggiore sul BRI è che potrebbe creare un risultato in cui la Cina domini il panorama infrastrutturale nei paesi più poveri, vincendo l’influenza sulle loro politiche estere e ridurli in uno stato di debitori di lungo termine come meri importatori di beni cinesi.

In assenza di alternative accettabili le nazioni del sudestasiatico rassomigliano ai proverbiali barboni che non possono permettersi di fare gli schizzinosi.

Richard Heydarian, politologo filippino. ASIANIKKEIPubblicità

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