Andrew Marshall, giornalista inglese che vive nel sudestasiatico da alcuni anni, in un articolo apparso sul TIME e sul suo Blog discute del pericolo della nascita di un altro fenomeno di insorgenza in Thailandia nelle zone roccaforti delle magliette rosse.
Un analoga situazione si trova nelle province meridionali di Narathiwat, Yala e Pattani. Su questo ultimo argomento, rammentiamo i lavori di Michael Connor apparsi sempre nelle pagine di questo blog.
SI PUO’ EVITARE UNA NUOVA INSORGENZA?
Una fonte anonima del governo Thai, per bocca del BangkokPost ci consegna cortesemente una dei più deprimenti resoconti statistici. I militari erano disposti ad uccidere tra «200 e 300 persone» e ferirne varie migliaia nella loro operazione di presa dell’accampamento delle magliette rosse a Rachadaprasong, nel distretto commerciale.
Se poi guardiamo alle cifre della tragedia del 19 maggio con i suoi 15 morti e le centinaia di feriti, ci si potrebbe sentire soddisfatti se non fosse che le cifre ufficiali dei morti e feriti di tutti gli scontri e gli attacchi con bombe sin dal 10 aprile, durante l’offensiva abortita dei militari contro un’altra sede occupata dalle magliette rosse, nella Bangkok vecchia, non permettono davvero alcuna celebrazione: 85 morti morti e 1402 feriti.
Molti Thailandesi hanno paragonato gli ultimi eventi a quelli Maggio Nero del 1992, quando i militari aprirono il fuoco con munizioni vere sui manifestanti a Bangkok, uccidendo almeno 48 persone ma il numero esatto è ancora in dubbio. Ma c’è un esempio molto più recente di soldati thailandesi che aprono il fuoco su cittadini thailandesi, uno a cui forse il Primo Ministro Thailandese Abhisit Vejjajiva pensa quando prova a riunificare questa terra divisa.
Fu una atrocità che ebbe inizio con una protesta. Il 25 di ottobre del 2004, centinaia di persone si radunarono di fronte alla stazione di polizia di Tak Bai, un villaggio nella provincia meridionale di Narathiwat per protestare contro l’arresto di sei uomini del posto.
La Thailandia è una nazione in cui prevale il buddismo come religione e si parla il Thailandese, ma la maggioranza delle persone nelle tre province più a meridione sono a prevalenza musulmana e di lingua Malay, andando in contrasto con il comando della distante Bangkok per più di un secolo. Nel gennaio 2004, un’incursione contro un campo dell’esercito sempre in Naratiwat diede l’inizio ad un’insorgenza regionale contro il governo.
Alla stazione di polizia di Tak Bai la situazione si fece brutta. I manifestanti gettarono pietre provando ad assaltare la stazione di polizia secondo la cronaca. La polizia e i soldati aprirono il fuoco uccidendo sette persone ed arrestandone altre centinaia, quasi interamente giovani musulmani. Con le braccia legate alle spalle, furono buttati sugli autocarri militari e da settanta ad ottanta di loro perirono o per soffocamento o per i pestaggi.
Benché da decenni ci fossero vari gruppi che si opponevano con la forza al governo di Bangkok, i fatti di Tak Bai radicalizzarono una generazione nuova e, forse, più spietata di oppositori. I resoconti strazianti di manifestanti picchiati e bastonati selvaggiamente dai soldati e poi buttati sui mezzi dell’esercito furono subito banditi dalle autorità, benché circolassero segretamente nelle case del meridione Thailandese. Dopo sei anni, il conflitto in atto ha ucciso più di 4100 persone, per lo più civili.
Tutto ciò accadde quando era primo ministro Thaksin Shinawatra le cui politiche brutali furono importanti nel far nascere l’insorgenza al sud. (alcuni giorni fa, una corte di Bangkok ha emesso un mandato di arresto per terrorismo nei confronti di Taksin per aver presumibilmente pensato la resistenza violenta delle Magliette Rosse).
Ma forse può fornire ancora una lezione all’attuale leader della Thailandia. La repressione a Rajaprasong potrebbe radicalizzare le Magliette Rosse alla stessa maniera in cui Tak Bai fu per l’insorgenza a sud?
Potrebbero le roccaforti dei Rossi nel nord e nordest divenire delle zone vietate ai soldati e agli ufficiali governativi, alla stessa maniera in cui lo sono già molti distretti meridionali ? Dopo gli eventi ultimi di Bangkok nessuno scenario sembra impossibile o lontano. La politica si è fortemente polarizzata ed ognuno degli schieramenti sono disponibili ad imbracciare la forza, e molti Thailandesi temono che altre parti della nazione possano diventare «proprio come il sud».
C’è anche un’altra situazione analoga. Una parte del piano di riconciliazione del dopo Rajaprasong è di istituire una commissione denominata dal governo «una commissione indipendente di ricerca dei fatti» per indagare sulla recente violenza.
Questo è vitale: la giustizia è un grande fattore di guarigione, qualcosa che Abhisit ha già riconosciuto proprio sei mesi fa in un discorso sull’insorgenza nella Thailandia meridionale. “Crediamo nello sviluppo e in un sistema giudiziario obiettivo“.
Ma una giustizia non obiettiva, che naturalmente non è una giustizia, non guarisce. Avvelena. E questo è particolarmente vero quando i principali protagonisti deputati a far rispettare la legge, i soldati e la polizia, di fatto rimangono al di sopra di essa. Ancora, ritorniamo a Tak Bai.
Quasi un anno fa, il 29 maggio 2009, una corte della provincia decretò che i militari e la polizia non avevano avuto alcuna responsabilità nella morte dei manifestanti. In modo prevedibile ne seguì una esplosione di violenza da parte dell’insorgenza musulmana come dei gruppi paramilitari buddisti. Culminò neanche due settimane dopo con la strage di 11 fedeli nella moschea di Al-Farquan, nella provincia di Narathiwat, risultando in uno dei più sanguinosi attacchi che il sud abbia mai visto. Un’indagine della polizia sui fatti stabilì che erano implicati milizie progovernative.
Con la promessa di una giustizia equa ma permettendo simili atrocità, Abhisit ha perso il sud. Senza una indagine intera e imparziale sui recenti scontri mortali a Bangkok, potrebbe anche perdere il resto della nazione.
Gli attivisti dei diritti umani thailandesi e quelli americani di Human Rights Watch hanno richiesto un’inchiesta indipendente per esaminare, tra le altre grandi questioni in esame, l’uso delle armi da parte dei soldati e delle magliette rosse armate.
In modo privato, si ammette che anche un’indagine di questo tipo potrebbe risultare in un nulla di fatto.
Abhisit è ora alle prese con due grosse questioni: una contro l’insorgenza nel lontano sud e l’altra contro le magliette rosse nel nord e nordest.
In entrambe lui si affida fortemente alla potenza delle forze armate, ed è questa la ragione per cui è riluttante ad inemicarsi i generali con un’indagine su quanto fatto dai loro soldati. Sarebbe un errore.

«Presentare un’inchiesta credibile è nell’interesse di una Thailandia unita. Senza giustizia e responsabilità non ci può essere riconciliazione.» testimonia Sunai Phasuk, ricercatore che lavora con Human Rights Watch.
Ecco un altro conteggio di cadaveri: 19, le vite che il conflitto nel sud ha mietuto nelle province di Narathiwat, Yala e Pattani dal 10 aprile al 19 di maggio. Nello stesso periodo a Bangkok morirono il quadruplo di vittime, ma solo per quelle sei settimane rabbiose. La gente del meridione della Thailandia sta morendo da centinaia di anni e con altri governi distratti nella lontana Bangkok dalla propria sopravvivenza politica, probabilmente continuerà a morire per chissà quanti anni ancora.