Dopo due anni di lavoro duro senza paga su un peschereccio thailandese, Sai Ko Ko cadde ammalato. “Il capitano si scagliò con parole contro di me, ma stavo così male che non riuscivo a lavorare” ricorda questo ragazzo di 21 anni. “Mi pestò, mi tirò via mi buttò a mare”.
Fortuna volle che Sai Ko Ko fu salvato da un’altra imbarcazione e andò a finire in un centro di immigrazione indonesiano. . Ma tantissimi migranti birmani come lui vanno a finire molto peggio. Tanti sono bambini costretti a sopportare condizioni simili alla schiavitù. E, scandalosamente, i frutti delle loro pene continuano ad essere goduti, in modo non consapevole, dalle fgfamiglie americane, europee e di altre parti del mondo.
La Thailandia è il terzo esportatore di frutti di mare al mondo ed il settore valeva nel 2011 6 miliardi di euro. Un quinto del pescato finisce sulle tavole americane, come tonno, sardine, gamberi e calamari. Ma l’industria si affida in modo forte al lavoro forzato e proveniente dal traffico su imbarcazioni senza licenza. Le vittime in genere provengono da Cambogia, Laos e più comunemente Birmania. Violenze e fame sono cose comuni.
Qualche giorno fa la Environmental Justice Foundation, che ha sede a Londra, ha rilasciato un rapporto che dà il resoconto del dolore di Sai Ko Ko e di migliaia di persone come lui. “Schiavitù in mare” si rivolge alle autorità thailandesi, alla comunità internazionale e ai consumatori per chiedere la tracciabilità “fino al piatto” su tutti i prodotti della pesca.
“I lavoratori migranti nell’industria della pesca thailandese, tanti dei quali trafficati illegalmente, soffrono terribili abusi e la gran parte delle volte hanno i loro diritti umani fondamentali negati” dice Steve Brent del EJF che accusa la corruzione endemica, la cattiva applicazione della legge, il sostegno inadeguato alle vittime, condizioni di lavoro inaccettabili e una politica della migrazione insufficiente.
Si è parlato molto delle recenti riforme in Birmania, conosciuta ufficialmente come Myanmar, quando il già stato paria si è trasformato in una quasi democrazia dopo mezzo secolo di governo brutale della giunta militare. Ma per tanta gente comune, specialmente tra le tante minoranze etniche, quasi poco è cambiato. La maggioranza della popolazione sopravvive con meno di un dollaro al giorno, e tre quarti della popolazione non ha elettricità. Le promesse di lavori ben pagati dei paesi vicini mantengono perciò sempre un loro richiamo.
In Thailandia attualmente vivono circa tre milioni di emigranti birmani. Quando nel maggio 2012 il premio nobel Aung San Suu Kyi fece il suo primo viaggio all’estero dopo 24 anni di prigionia, visitò ovviamente i compatrioti a Mahachai, un centro della pesca commerciale a 20 chilometri da Bangkok, conosciuta come la Piccola Birmania.
Tanti dei possibili emigranti non hanno documenti e pagano varie centinaia di dollari a mediatori perché li facciano passare la frontiera con la promessa che al loro arrivo troveranno un lavoro ben pagato.
In realtà degli individui vulnerabili sono venduti ai capitani dei pescherecci per un grande profitto, e devono liberarsi di un debito enorme dalle loro spalle. La polizia di frontiera e i rappresentati ufficiali sono spesso complici in questi affari. La condanna dei colpevoli è rara. Tanti lavoratori della migrazione vengono venduti di barca in barca e non vedono terra per anni, dormendo all’aperto e costretti a prendere tante pasticche di amfetamina per restare svegli per giorni e giorni. Per le condizioni pericolose e le estremamente lunghe ore di lavoro, sono cose comune gli incidenti sul lavoro, e in tanti si gettano in mare andando incontro alla morte come unico mezzo di fuga.
Persino per i giovani schiavi che vengono salvati non c’è fine all’incubo. Aye Ko Ko di diciassette anni era tra i 14 salvati da un peschereccio lo scorso marzo per andare a finire l’anno successivo in un centro di detenzione. “Nessuno ci aiuta” disse al EJF a gennaio: “Nessuna organizzazione viene a vederci come facevano prima. Alcuni sono stanchi di tutto e vogliono solo tornare a casa”.
La pesca intensiva ha peggiorato il problema. Negli anni 60 i pescatori del golfo della Thailandia pendevano 300 chili di pesce all’ora. Muovendosi di mezzo secolo in avanti ora la pesca è di appena 25 chili dice Greenpeace. I profitti a picco potano ad una richiesta di lavoro a basso costo. Secondo l’ILO lo scorso anno l’industria della pesca ha perduto 50 mila lavoratori “sia una causa ed un effetto delle pratiche di sfruttamento del lavoro che si vedono nel settore della pesca”.
Il governo thailandese dice di lavorare al problema. Il vice ministro del lavoro Boontharik Samiti diceva alle agenzie che “Tutti i corpi dello stato si sono radunate nello sforzo di prevenire questo problema in un modo sostenibile e di lungo termine”. Ma il dipartimento di stato americano ha rilevato una mancanza di progresso nella lotta al traffico umano, e quest’anno come conseguenza del suo rapporto sul traffico di persone, la Thailandia sarà probabilmente declassata alla peggiore delle quattro categorie con la possibile conseguenza di una restrizione sulle importazioni di pesce.
Andy Hall, che lavora sulle questioni dei lavoratori della emigrazione, racconta che i consumatori hanno una posizione fondamentale. “La gente compra ancora pesce dalla Thailandia per cui non ci sono incentivi ad affrontare seriamente questa questione” dice aggiungendo che le risorse della polizia su questa questione sono minuscole se paragonate alla grandezza del problema”.
Andy Hall ricorda come la pressione dei consumatori finlandesi aveva avuto il risultato di bloccare i prodotti a base di ananas della Thailandia dopo che furono denunciati violazioni simili. “Non vediamo questo genere di pressioni in altre parti di Europa, e particolarmente non in USA. Il consumatore occidentale medio non ha molto interesse nel sapere da dove provengono questi prodotti” e i trafficanti di schiavi fanno affidamento su questa apatia.
Charlie Campbell, TIME