Due anni dopo, un gruppo di militanti e di accademici sotto l’etichetta di People’s Information Center (PIC), che cercano di porre fine alla impunità di stato in relazione alla repressione del 2010 sulle proteste delle magliette rosse, sta rilasciando il loro rapporto dal titolo: “La verità per la giustizia: Eventi ed impatto sulla dispersione delle proteste ad aprile-maggio 2010”.
Il gruppo afferma che ci sono state 94 morti complessivi. Qui si ha un resoconto di Pravit Rojanaphruk sul colloquio che ebbe con la coordinatrice del PIC, Puangthong Pawakapan su quanto trovato nella loro ricerca.
D: Cosa avete scoperto di importante che possa cambiare il modo in cui la società guarda a quei fatti?
R: Sono stata alquanto sorpresa di quante morti casuali ci siano state, di quelli che non avevano a che fare con le proteste ma che erano stati colpiti da proiettili vaganti. Molti credono che la morte e la violenza siano capitati dopo gli incendi del 19 maggio, ma abbiamo scoperto che le operazioni militari cominciarono dal 14 maggio e quel giorno furono uccise 11 persone a Bon Kai, Lumpini Park e Rajprapop. Un ufficiale anziano scriveva nel 2010, in un giornale delle Forze Armate sul successo dell’operazione militare che è attribuita all’uso di munizioni vere contro i manifestanti. Questa è forse la ragione per cui molti furono colpiti da pallottole vaganti. Per quanto riguarda i cosiddetto “Uomini in Nero” non si capisce a chi appartenessero e persino il governo di Abhisit non ci riuscì nel rintracciarli. Morti e feriti, inoltre, accaddero il pomeriggio del 10 aprile, prima dell’affermazione dell’amministrazione di Abhisit e del CRES secondo cui accadevano la sera, dopo lo scontro con gli uomini in nero.
Il governo di allora dice che quelli che morirono erano terroristi ma nelle prove che abbiamo raccolto, non scopriamo tracce di polvere da sparo sulle mani di quelli uccisi.
D: Cosa può dire sull’impiego di Cecchini dell’esercito?
R: Ci sono così tanti video su internet che mostrano soldati con fucili con mirini telescopici. Questo spiega perché il 30% delle morti hanno dei proiettili sulle loro teste. E se si combina con un altro 22 % che è morto da ferite da arma da fuoco al petto, la cifra va oltre il 50%. Questo non è sparare per autodifesa come affermato dal governo di Abhisit.
D: Chi ritiene responsabili per tutte queste morti?
R: In primo luogo il capo del governo, chi diede gli ordini al CRES e alla persona che propose la strategia delle forze armate. E’ responsabilità di quelli che impiegarono i mezzi militari per disperdere la protesta e non riuscì a controllarla.
D: Il suo gruppo è considerato vicino alle magliette rosse. Non condiziona la credibilità delle vostre scoperte?
R: Non ci sorprende questa accusa. Ma quello che vogliamo che la società consideri è l’informazione che presentiamo, ed in molti casi l’informazione punta all’uso eccessivo della forza e che non è in linea con quanto affermato dal governo o dal CRES. Anche se si ha dalla propria parte la legge e la forza militare, non si ha il diritto di violare il diritto alla vita dei manifestanti che non avevano armi letali e che lottavano contro il governo. Nessuno di quelli feriti uccisi sembravano portare armi letali.
D: Lei è pessimista su altri due rapporti di ricerca che saranno rilasciati dalla Commissione per la verità per la riconciliazione (TRCT) e dalla commissione nazionale dei diritti umani NHRC. Può spiegare il perché?
R: La Commissione TRCT è ancora confusa tra il problema di accertare la verità e la riconciliazione. Sembra che temano che la verità possa rallentare la riconciliazione. Per quanto riguarda la NHRC speriamo che applicherà il principio dei diritti umani ugualmente da entrambi i lati e che non useranno il principio per difendere l’uso indiscriminato della forza del governo di Abhisit. Inoltre mentre molti dimostranti sono stati tenuti in detenzione prima che fossero emessi dei verdetti ed alcuni anche rilasciati il processo al governo di Abhisit deve ancora cominciare. Sembra che differenti gruppi nella società thailandese sia già giunta alle proprie conclusioni su quello che accadde nel 2010. Non ci aspettiamo che la società cambi le proprie conclusioni. Se l’informazione che abbiamo raccolto sarà di beneficio o no, dipenderà dal cambio politico nel futuro. Quindi i responsabili saranno puniti.
D: Avete speranza che l’impunità di stato terminerà?
R: Non ho fiducia. Ma non ce ne possiamo stare seduti a fare nulla. Speriamo che se non accettiamo l’impunità dello stato allora sarà scosso. Quello che facciamo è di sfidare la cultura dell’impunità.
Pravit Rajanaphruk, The Nation