Sono passati tre anni da 19 maggio 2010 quando le forze militari, su ordine del governo di Abhisit e comandati dal generale Prayuth, sgomberarono l’accampamento delle magliette rosse a Ratchaprasong dopo tre mesi di manifestazioni che bloccarono Bangkok.
Sono morte 92 persone e migliaia furono i feriti. Ricordiamo solo, tra i tanti, Fabio Polenghi che fu ucciso mentre faceva il suo mestiere da appassionato fotoreporter, e il cameramen giapponese Muramoto.
Le magliette rosse chiedevano le dimissioni del governo di Abhisit, nominato nel 2008 dopo il golpe che cacciò il premier Thaksin, e nuove elezioni. Due governi nominati in parlamento della precedente elezione furono sciolti per presunta corruzione.
Alla manifestazione di domenica scorsa varie decine di migliaia di manifestanti tutti in rosso (secondo gli organizzatori erano centomila) hanno fatto sentire la propria voce per “ricordare i bravi martiri e cercare giustizia”. Alcuni centri commerciali non hanno aperto.
La presidente dell’organizzazione delle magliette rosse UDD Tida Tojirakarn ha deposto sei corone di fiori per le sei persone uccise all’interno del tempio Wat Pathum dalle milizie che sostavano sul sovrastante percorso della metropolitana. Il tempio era stato considerato area sicura dai manifestanti, ma non riconosciuto come tale dal governo, come dichiara Abhisit stesso in una sua intervista recente. Comunque alla fine le truppe furono viste sparare su le persone inermi e sul personale medico che lì stava operando.
Alla manifestazione c’erano i familiari di un’infermiera uccisa e la sorella di Fabio Polenghi e il consigliere legale dell’UDD, Robert Amsterdam.
Dopo sono stati ricordati i momenti che hanno portato la morte al cameraman giapponese Hiroyuki Muramoto, ucciso il 10 aprile del 2010 dalle forze di sicurezza come ormai accertato dal tribunale.
Nel frattempo una frazione delle magliette rosse ha posto nei punti salienti del luogo delle strisce rosse “per non dimenticare” che quel luogo è stato trasformato da zona di affari in un luogo di crimine politico.
La manifestazione è continuata poi fino a sera inoltrata con altri comizi e discussioni.
Oltre la commemorazione rimane per molte magliette rosse un po’ di amarezza. Si cerca ancora giustizia per quello che è successo, mentre restano ancora in carcere 19 magliette rosse accusate di terrorismo. Altre cinque sono state elette parlamentari alle elezioni del luglio 2011.
Si cerca giustizia ma il Dipartimento di Indagini Speciali, DSI, ha escluso tutti i militari di ogni ordine e grado dall’inchiesta sulle responsabilità per la morte dei manifestanti, in quanto esecutori di ordini, facendo carta straccia in questo modo di ogni idea di catena di comando come è obbligo in ogni inchiesta mondiale sui crimini contro i civili. Ad essere incriminati di omicidio restano solo l’ex primo ministro Abhisit e il suo vice Suthep per aver autorizzato l’uso delle armi da fuoco e dei cecchini come strumento di autodifesa.
Nel frattempo la ricerca della conciliazione ha trovato un punto nel risarcimento alle vittime delle forze dello stato, sia magliette rosse che gialle che vittime della violenza nel meridione thailandese. Resta ancora tutta aperta la questione dell’amnistia e delle tante proposte fatte da vari parlamentari. In questa possibile amnistia ci sono tante magliette rosse incarcerate e processate anche per Lesa Maestà, ed una vittima è stata lasciata morire in carcere per cancro all’età di sessantanni. Ma tra i tanti ci potrebbe essere lo stesso Thaksin che fa sapere che è troppo tempo ormai che sta fuori del paese.
Ed è proprio questa questione che tiene il governo di Yingluck Shinawatra in bilico, generando anche paure di un possibile futuro golpe.
La questione dell’amnistia da una parte, per il vice ministro del governo di Yingluck Chalerm, è legata a far rientrare l’ex premier Thaksin in Thailandia senza che sia arrestato e sconti la sua condanna a due anni dando allo stesso tempo amnistia ai militari e ai politici dell’opposizione coinvolti. Dall’altra la presenza di tanti militanti delle magliette rosse incarcerate per terrorismo e di tanta gente che è stata condannata per la lesa maestà secondo l’articolo 112 ha fatto porre a vari parlamentari del Puea Thai di origine militante la richiesta di una amnistia legata solo a chi si trova dentro per fatti legati al dopo golpe del 2006 senza alcuna soluzione per chi invece guidava i movimenti, come la proposta del Parlamentare Woranai.
Su quest’ultima posizione sembra essersi espresso Thaksin stesso durante una sua apparizione via Skype alla manifestazione di ieri. Bisognava dare una risposta da parte del suo governo alla questione dei tanti militanti ancora incarcerati, al modo di tirarli fuori indipendentemente dalla ricerca della soluzione per il suo ritorno in patria. “Mi avete chiesto se voglio tornare a casa. Lo voglio ogni singolo minuto della mia vita. Ma se il paese non può avere democrazia e libertà non tornerà a casa ma continuerò a lottare per essa” ha detto Thaksin.
Quello che succederà il 23 maggio alla riapertura del parlamento è tutto da vedere, come è da vedere la reale intenzione di Thaksin. Il vice ministro Chalerm ha dichiarato che presenterà la proposta di una amnistia globale e tombale per tutti.
A molti inoltre interessa sapere del destino di oltre un miliardo di euro di Thaksin, congelati in seguito alla condanna di Thaksin, che sarebbero anche una patata bollente per la stessa Yingluck.
A Woranai ed ad altri di certo di certo non sfugge che questo significherebbe proprio l’opposto della ricerca della giustizia che sia base di un processo di reale riconciliazione, un fatto che la maggioranza delle magliette rosse non possono proprio accettare. Questa amnistia inoltre sarebbe difficilmente accettabile da tutti quelli che hanno visto i propri cari morti nelle strade e chiedono di portare i responsabili difronte alla giustizia. Certo vedersi Abhist e Suthep liberi di ogni accusa a loro carico è qualcosa che pochi sono disposti ad accettare.
Sul blog Political Prisoners of Thailand si legge: “Essi (vari membri delle magliette rosse, docenti del gruppo Nitirat ed altri docenti della Thammasat) dicono che il partito sta tradendo le fila delle magliette rosse, come se un centinaio di morti e le migliaia di feriti fossero semplicemente il prezzo da pagare per il partito e fare un compromesso con il potere costituito per la propria sopravvivenza”.
C’è comunque un altro grande argomento di tensione nel paese legato al tentativo di modificare la costituzione attuale che fu riscritta dai militari all’indomani del golpe del 2006 e che fu almeno apparentemente sottoposta ad un referendum popolare. Questo è stato un altro grande argomento del discorso di Thaksin che ha chiesto ai giudici della cote costituzionale di non interferire col processo di revisione costituzionale.
Attualmente le proposte sono nella fase di rilettura in parlamento con il solito partito democratico che vi si oppone aspramente tanto da chiedere alla Corte Costituzionale di bloccare l’iter di approvazione stesso, portando in pratica così una clausola della costituzione stessa per cui chiunque può invocare la corte costituzionale se presume che una legge sia fondamentalmente dannosa per la monarchia e per la Thailandia.
Nei giorni scorsi era prevista una manifestazione delle magliette rosse a chiedere alla corte costituzionale stessa le loro dimissioni. Lo stesso Thaksin si è poi dissociato dall’iniziativa. Ma la contesa è ancora aperta.
Tutto questo però mette in luce l’incapacità del governo di Yingluck di muoversi e di portare avanti i temi fondamentali del paese, paralizzata dalla sempre presenza dei militari e del loro comandante Prayuth e dal rischio di un golpe.