Dopo sei mesi di schiavitù Sanh e altri due amici birmani si tolsero i vestiti, li misero in una borsa di plastica e si gettarono in mare
A sentire Jord, la vita di un pescatore d’altura è una lotta da lunghi coltelli. La sua cicatrice più brutta comincia sui suoi occhi allungandosi sulla testa in un solco rosa a ricordare il tentativo di qualcuno di aprirgli la testa come un cocomero.
Anche gli arti di questo meccanico di barca thailandese non se l’è cavata meglio. Un pezzo grosso di carne gli è stato tagliato via dalla coscia destra. Altre cicatrici da taglio gli stanno sulle spalle. Ma un orso che ringhia tatuato sui suoi muscoli suggerisce che forse i suoi nemici se la sono vista anche peggio.
Jord fa segno al suo muso scuro e legge ad alta voce ciò che è scritto. “Vinco sempre” dice il tozzo pescatore bruciato dal sole con la sua voce stridula. I pescherecci d’altura thailandesi sono un quadro di uomini duri in assenza di legge. Hai un problema con qualcuno, lo butti giù al momento” dice Jord, un venerdì pomeriggio passato in una stamberga di una città portuale con la sua ciurma. “e ti assicuri che poi non ti viene a cercare.”
I cinque giorni di permesso, una confusione di alcol e donnine da karaoke, si passano a Samut Sakhon, il centro della pesca industriale della Thailandia. Si sono piazzati in un postaccio della città, una stradina dietro un cinema abbandonato. Anche a terra stanno attaccati l’un l’altro. Questi gruppi, come quelli delle prigioni, offrono una qualche misura di protezione reciproca contro i rivali.
Lungo la vicina tratta ferroviaria i bambini raccattano alcol, sigarette e ghiaccio per gli uomini dagli occhi iniettati di rosso. Ragazze col rossetto in pantaloncini elettrici entrano ed escono dalle stanze sul retro. Qui il sesso si vende a 5 euro. Una bottiglia di whisky cattivo vale 3 euro. E i lavoratori cambogiani o birmani su cui i tipi come Jord spadroneggiano costano 500 euro al cranio. Questo è il prezzo pagato ai trafficanti che guidano orde di uomini disperati dai paesi vicini verso stanze col lucchetto sulla spiaggia. Fin troppo spesso i lavoratori non ricevono nulla.
Una volta acquistati dalla banda dei pescatori thailandesi, i capitani possono sceglierli se pagarli onestamente, schiavizzarli o se a loro aggrada cacciarli come schiavi esausti.
“Anni fa vidi una ciurma intera straniera uccisi con le armi” dice Da, un pescatore thailandese che lavora in mare dalla sua giovane età. “Erano 14. Erano in mare da 5 anni senza essere pagati. Il padrone non li voleva pagare. Li allinearono sul lato della nave e li spararono ad uno ad uno.”
Dodici corpi buttati in mare. Due buttati in avanti e pestati a sangue sulla barca. “Mi fu ordinato di buttarli in mare e di ripulire lo sporco.” dice Da.
A terra, i pescatori di lunghi viaggi tendono ad occupare gli scalini più bassi della società. “Tanti vanno in mare per fuggire la giustizia” dice Jord. Ma sul mare aperto questi disadattati occupano le caste più alte. I loro subordinati, gli uomini trafficati, devono rendersi utili o perdono tutto. L’assassinio è comune fino all’oscenità. Di sette uomini già schiavi intervistati in Thailandia e Cambogia quattro avevano assistito ad un omicidio sui pescherecci thailandesi. Lo stesso è stato osservato dal 60% di un gruppo di 49 persone salvate da un gruppo anti traffico dell’ONU nel 2009.
“Ho visto una volta un capitano colpire un uomo nel petto con un ago per aggiustare le reti. La ciurma tirò fuori una sacca per dormire dove avvolse il cadavere e lo rotolarono in mare.” dice un uomo cambogiano Pich. Egli stesso stava per diventare una delle vittime. Appena un mese in prigionia, il suo capitano ed il capo della ciurma erano esasperati del suo modo di lavorare. “Uno mi puntò la pistola alla tempia. L’altro mi colpì con una mazza. Quando provai con le mani a schivarmi i colpi, la mazza mi fratturò i polsi.” dice Pich. Per oltre sei settimane Pich sceglieva il pesce con la sola mano buona.
Secondo i marinai anziani thailandesi, c’è un codice di onore che obbliga i Thailandesi a dare rifugio ai thailandesi che cadono nelle mani di capitani violenti, ma non si estende ai trafficati.
“Pensavano di andare a lavorare in una fabbrica o nell’edilizia ed ora sono su una barca. E allora?” dice Jord.
Negli anni 80 l’industria della pesca d’altura soddisfaceva i suoi bisogni con i thailandesi in cerca di lavoro. Ma la riduzione della povertà nei decenni successivi ha dato migliori opportunità di quella di una vita passata su uno sporco peschereccio di altura lontano da casa. Ora la stessa industria ha il grave problema della mancanza di manodopera e sono 70 mila i posti di lavoro vacanti secondo l’ONG che studia il traffico umano, Mirror Foundation.
La pressione finanziaria costringe i capitani a ricercarsi dei lavoratori. Il carburante ha un pso dal 40 al 60% dei costi della barca ed i prezzi globali si mangiano i margini di guadagno dei capitani.
L’eccessiva pesca nei mari ha costretto le imbarcazioni a lavorare più a lungo e duramente per un gruzzolo più piccolo di pescato di alto valore: sgombri, orate, calamari ed altro. “Hai sempre bisogno di lavoratori” dice Ad un vice capitano con la muscolatura di un lottatore di Muai Thai. “Scendi al molo in cerca di un lavoro e sarai tirato a bordo.”
Secondo la Mirror Foundation, la richiesta do lavoro ha costretto il sindacato del crimine ai rapimenti: con la minaccia di una pistola, la droga nelle bevande ai karaoke o, come accaduto nella stazione di Bus di Mor Chit di Bangkok, stordendo due ragazzi in un bagno pubblico con il cloroformio.
Il metodo preferito si affida alle prede straniere. La Thailandia ha ai suoi fianchi due delle regioni più povere dell’Asia, Birmania e Cambogia. La bruttura dei villaggi dall’altra parte della frontiera è così dura che la speranza di un lavoro dei più duri, l’edilizia o l’agricoltura, può spingere un uomo a credere nelle menzogne di un mediatore. “Nel mio villaggio prendevo un euro al giorno, come manovale. Mi dissero che potevo guadagnare 200 euro in un mese in un’industria thailandese. Mia moglie aveva appena partorito un bimbo con problemi, Potevo rifiutarmi?” dice Sokha della provincia di Prey Veng.
Un mediatore ha detto a Kim Net un giovane della provincia di Kampot che poteva curare i giardini thailandesi a 150 euro mensili. “Cominciai a pensare ai polli da comprare con quella somma. Il mediatore viveva nel mio villaggio e mi fidavo.”
Un altro schiavo del mare proveniente dallo stato montagnoso dei Karen, dove vige una delle più lunghe guerre civili disse che il suo viaggio iniziò con la promessa di una mediatrice di un lavoro in fabbrica. “Io e mio fratello pagammo 22o euro per farci portare lì.” dice Sanh. “Camminammo per la giungla per una settimana, camminando di notte e lavorando di giorno per procurarci da mangiare. Alla fine raggiungemmo qualcuno che era venuto a prenderci dall’altra parte.”
Mediatori disonesti o chiedono contanti per un posto di lavoro oppure “lavora ora, paga dopo”, ma il risultato è il medesimo: servitù obbligata. Dopo essere stati venduti il debito di uno schiavo si trasferisce al capitano che è libero di domandare un prezzo impossibile per la libertà impossibile da ripagare. “Abbiamo trovato computer pieni di nomi di vittime, con la cifra versata e quella da versare.” dice Punnaphot Khamenketkarn del Ministero thailandese dello sviluppo sociale. “Mantengono persino nota di chi scappa e chè catturato. Se scappi e ti prendono il debito si raddoppia, poi si triplica. E’ un gioco a perdere. E anche se non provi a scappare non potrai mai pagare il tuo debito.” Tutti quelli che sono stati intervistati hanno subito capito di essere stati ingannati una volta che i trafficanti li sbattono nelle case sicure riempiti di persone come loro. Qui attendono dove saranno venduti come pollame. Le stanze sono chiuse dall’esterno e guardate a vista. “Cerano tre guardie con i coltelli. Due uomini ed una donna. Di solito fumano la yama, una metanfetamina, dalla bottiglia.” dice Net un altro schiavo. La disperazione dei prigionieri era massima quando tre uomini in uniforme visitavano la stanza con le armi sul fianco. Non era una missione di salvataggio.
I poliziotti, che conoscevano le guardie puntavano ai prigionieri e urlavano comandi al mediatore, di lingua thai. “Non capivo una parola ma il mediatore diceva che sarebbe davvero nei guai se anche uno di noi fosse fuggito”.
Si facevano uscire gli uomini dalla stanza a due o tre la volta. Dopo appena un mese, anche Net uscì fuori e fu venduto per 500 euro ad un capitano di nave che lo portò ad un peschereccio. Non avrebbe toccato terra per 16 mesi consecutivi.
Chi è riuscito a sfuggire racconta il ritmo brutale sui pescherecci. Il periodo tipico di lavoro prevede da 18 a 20 ore al giorno di gestione delle reti e cernita del pescato. Si dorme solo dopo aver sistemato il pescato e riparato le reti che sono facili a rompersi. L’imbarcazione di solito è sui venti metri e dà poca copertura dal sole cocente. Quando è dato loro il permesso di dormire i pescatori spesso poggiano la testa sul legno che vibra al ritmo roboante dei motori. “Non ci si riesce ad abituarsi alle vibrazioni” dice Sokha. Un pasto consiste in una poltiglia di riso e qualche pezzo di carne.
La fatica ti mangia il cervello, dice Sanh. La malnutrizione e la sete ti fa diventare un fantasma. “Vuoi sempre sdraiarti. Quando lo fai alla fine, non hai un solo pensiero per la testa. Dormi all’istante”.
Sokha serviva per un capitano che si vantava di aver lavorato per i Khmer rossi. Il capitano affermava di essere scappato in Thailandia, di essersi sposato e poi mischiato nella società thailandese. “Si assicurava che vedessimo le sue armi” dice Sokha. Uno era un AK 47, un’altra era una pistola k 54 d’annata. “Ci diceva ‘non mettetemi neanche alla prova. Sono stato crudele in vita mia e lo sarà ancor di più’”
Il vantaggio di Sokha, schiavo sotto un ex khmer rosso, aveva una gratifica: i prigionieri khmer avevano la stessa lingua. Questa è però l’eccezione. La cattiva comunicazione è la norma tra i capitani e i loro schiavi cambogiani o birmani. Non riuscire a capire un comando può provocare la violenza o peggio. “Un tipo non comprese un ordine e fu picchiato con una mazza di ferro. Il braccio si spezzò. Sangue dovunque. Ritornò a scegliere il pesce. O continui a lavorare o sei sparato.”
Gli anni macinano le giovani vite. A parte da qualche fermata in un porto, Pich che ora ha 32 anni, non ha toccato terra da sei anni. Il suo navigare ha di fatto aumentato il suo valore di mercato mentre i capitani continuano a rivenderlo ad altri su differenti imbarcazioni. “Una volta che un capitano si stanca di un tipo lo vende ad un altro per fare soldi.” dice Ad, vice capitano. “Un uomo può stare lì ed essere rivenduto anno dopo anno.”
Alla fine Pich è scappato nella giungla della Sarawak malese. Il capitano si fidò di lui per andare a comprare da mangiare ad un mercato vicino al porto. Fuggì per sopravvivere. Dopo due anni in una piantagione di caucciù e nell’edilizia, dove fu di nuovo picchiato, Pich incontra un cambogiano compassionevole con amici in una congregazione occidentale che gli pagò il volo di ritorno a casa.
Sokha, con suo figlio e nipoti, fuggì quando il suo capitano se ne andò in giro con gli altri capitani. Per la prima volta dopo mesi le loro imbarcazioni erano ancorati vicino alla terra ferma. Nuotarono alla vicina isola di Koh Tut, un’isola thailandese vicino alla Cambogia e cercarono rifugio presso un pescatore cambogiano. Dopo averli messi al lavoro sulle barche da pesca vicino la costa l’uomo si fece i soldi sufficienti per riportarli a casa.
Il destino degli schiavi che fuggono a riva, senza un soldo e in cenci, spesso è legato a qualche incontro di fortuna con uno straniero altruista. I negletti finiscono come Sanh. La sua fuga fu seguita da settimane in giro per la costa thailandese come un fantasma affamato.
Sanh da allora ha esso un po’ di carne alla sua figura sottile. Si aggiusta i suoi capelli neri a ciuffo e si dipinge le guance, come fanno in Birmania, con la pasta delle bacche ogni mattina a rettangoli taglienti. Quando è ansioso mordicchia una corda attorno al suo polso.
Nel 2010 dopo sei mesi di schiavitù Sanh ed altri due amici birmani si tolsero i vestiti, li misero in una borsa di plastica e si gettarono dal peschereccio. “C’era un uomo a bordo che era lì da tre anni. Non volevo finire come lui.” dice Sanh. Quella notte il capitano di Sanh fece due errori: calare l’ancora vicino un’isola e ubriacarsi. Quando poi si svegliò, Sanh e gli altri fuggitivi erano accoccolati su una collina. “Vedevamo la barca che ci cercava ma poi abbandonarono.”
La costa era appena visibile nella distanza. Dal loro punto di osservazione potevano vedere altre due isole che si sporgevano dal mare tra la costa. Quella notte dice Sanh nuotarono verso l’altra costa e si nascosero. La notte successiva raggiunsero l’isola finale.
Fame e disidratazione svuotarono la loro mente di quasi tutti i pensieri. “Raramente parlavamo. Tutto quello che mi dicevo era continua a nuotare o sei morto. Non pensavo ai miei amici o alla famiglia. Immaginavo soltanto il Buddha. Il terzo giorno Sanh e un suo amico raggiunsero la costa. L’altro non ci riuscì. “Non l’ho visto annegare. Era solo sparito. Si incamminarono lungo la spiaggia fino a Baan Phe, il porto per raggiungere Ko Samet.
Guardando la mappa la costa della Thailandia mostra la formazione di tre isolette a largo di Baan Phe che si accordano con la descrizione di Sanh, e si evince che l’ultimo tratto del suo viaggio, dall’isola a terra, era di due miglia con l’aiuto delle correnti.
Giunto a terra, Sanh è sopravvissuto come un cane randagio, succhiando acqua dai rubinetti esterni, rubando da mangiare dalle Case degli Spiriti che i thailandesi erigono per ingraziarsi gli spiriti del posto. Più di una volta supplicò i poliziotti di esser arrestato, ma questo straniero pieno di fango e senza soldi non valeva il loro tempo. “Mi guardavano e dicevano di no”.
Alla fine Sanh fece amicizia con altra gente scappata, finiti in una stazione di polizia e che si rifiutavano di muoversi. Fu messo sotto processo e poi portato in un rifugio del governo dove sta ancora oggi. “Era pelle ed ossa e pieno di barba quando è giunto. Bene che non lo hanno riportato in Birmania.”
In un giro perverso, Sanh è d’accordo. Nonostante la schiavitù e la fame, non desidera ritornare al suo brutto luogo natio. E’ un testamento alla disperazione al di là della frontiera, dove gli uomini pongono la fiducia in trafficanti che li vedono come animali. “Andare a casa? Per che cosa? Sono venuto per fare soldi. Era tutto. Voglio avere il mio certificato, la tessera rosa, e un lavoro fisso. A terra.”
Patrick Winn, theglobalpost