Il caso birmano: razze nazionali razzismo di stato e neoliberismo

L’ideologia egemonica birmana è il concetto di taingyintha, razze nazionali, secondo cui i soli membri di questi gruppi appartengono al paese.

La Birmania, conosciuta anche come Myanmar, ha celebrato il LXX anniversario dell’indipendenza in un momento in cui è del tutto evidente il fallimento del progetto di costruzione nazionale.

Lo scorso anno vide quasi la completa pulizia etnica della minoranza Rohingya musulmana nel Arakan. Oltre 600 mila musulmani scapparono a rifugiarsi nei campi stracolmi di rifugiati in Bangladesh. Nel frattempo sono continuate le guerre trai militari birmani del Tatmadaw e vari gruppi armati etnico-nazionalisti.

rohingya del Myanmar, razze del myanmar

Il braccio civile del governo, guidato da Aung San Suu Kyi e della Lega per la Democrazia, paiono incapaci di offrire una visione per il paese che si discosti dalla “democrazia disciplinata” sognata dalla giunta militare che governò la Birmania per cinque decadi.

I generali che un tempo controllavano la nazione sono riusciti in un compito incredibile. La maggioranza della popolazione si opponeva loro, ma ora una gran parte della popolazione buddista Bamar, maggioranza nel Arakan, sostiene se non acclama le “operazioni di ripulitura” contro i Rohingya. Il governo civile, nel frattempo, nasconde o nega del tutto le atrocità mentre prova a muoversi verso la pace con gli altri gruppi etnici armati. Suu Kyi non controlla i militari, ma il suo governo sembra troppo timido per fare comunque dei cambiamenti importanti.

Il governo eletto opera secondo la costituzione stilata dai militari che si attribuiscono vasti poteri e l’autonomia completa dal controllo civile. Ma questi vincoli istituzionali non spiegano totalmente i limiti del NLD che, invece, sembra condividere molta dell’ideologia con la giunta militare a cui prima si opponeva.

La questione nazionale e razze nazionali

L’ideologia egemonica birmana è il concetto di taingyintha, razze nazionali, secondo cui i soli membri di questi gruppi appartengono al paese.

Questo insieme di credi si fonda su una comprensione delle razze che separa le comunità etniche in gruppi discreti, legati ad un territorio particolare e dotati di tratti psicologici e culturali più o meno costanti.

Non c’è un singolo testo che cattura del tutto l’ideologia del taingyintha, la sua prima espressione la si ritrova nella legge della cittadinanza del 1982 che creò tre livelli di cittadinanza dando i diritti completi solo a quei gruppi etnici che “si stabilirono in Birmania … dal un periodo anteriore al 1185 prima di Cristo al 1823.”

1988 in Myanmar sollevazione popolare

La data finale è significativa, perché precede di un anno la guerra anglo-birmana, con cui i britannici conquistarono Arakan e la provincia meridionale di Tenasserim.

Il governo palesemente emise questa legge per proteggere le razze nazionali dall’arrivo do stranieri, come Cinesi ed Indiani. La legge sembra godere lo stesso sostegno vasto che godette quando fu scritta.

Nel 1991 il governo emise la lista attuale delle razze nazionali che ha incontrato sempre qualche controversia: esclude in modo arbitrario i Rohingya, Incorpora alcuni gruppi etnici sotto altri con cui non c’è quasi alcuna relazione linguistica, come il caso dei sottogruppi Shan, e ne ha suddiviso altri, come Chin e Kachin, in categorie più piccole, cosa che alcuni politici nazionalisti considerano un tentativo di divisione della popolazione.

Nonostante queste obiezioni pochi hanno contestato l’esistenza di tale lista.

I gruppi differenti affrontarono l’ideologia del taingyintha in modo diverso. I nazionalisti etnici Bamar trovano una gerarchia di civilizzazione che li mette alla sommità, mentre i nazionalisti Kachin si vedono come appartenenti a Kachinland prima e Birmania dopo.

Le narrazioni nazionaliste cambiano molto tra i gruppi differenti. Come ha mostrato l’antropologo Laur Kiik, il nazionalismo Kachin non vede l’ora di liberare i suoi membri dai limiti imposti dallo stato centrale birmano. Il nazionalismo Rakhine di contro, si articola sul recupero della vecchia gloria di un passato per lo più immaginato come regno indipendente e relativamente potente.

Questo progetto retrotopico trae già vantaggio dalla pulizia etnica dei Rohingya permettendo la sistemazione dei poveri contadini Rakhine nelle aree a maggioranza musulmana del Arakan Settentrionale. Il loro scopo affermato è restaurare il bilancio demografico che sarebbe esistito prima della II guerra mondiale.

Mentre l’ideologia del taingyintha non è riuscita a dare un senso di nazione condivisa dai vari gruppi etnici, serve come idioma comune che determina chi può rivendicare qualcosa.

Secondo il governo, i militari e la gran parte dei birmani, i Rohingya sono bengalesi, immigrati clandestini di quello che ora è il Bangladesh che provano ad invadere ed islamizzare il Arakan. Quindi non hanno diritto di partecipare alla politica birmana, in parlamento come sui campi di battaglia.

Infatti se si considerano le organizzazioni militari Kachin o quelle dello stato Shan, l’ARSA o anche Esercito di Liberazione dei Rohingya del Arakan, il nuovo gruppo insorgente Rohingya, ha subito una repressione estremamente particolare, anche secondo gli standard brutali del Tatmadaw. Mentre i gruppi KIA e SSA sono illegali e la polizia può arrestare chiunque è sospettato di avere legami con loro, lo stato sembra considerarli partecipanti validi ai colloqui di pace. Ma ARSA è al di là di ogni limite. E’ chiaro che i Rohingya non sono una popolazione da incorporare come i Kachine, quanto una popolazione da espellere.

Le linee di confine sono fondamentalmente etniche e comunali; la classe è assente. Non si vuol dire che non c’è un capitalismo di cronismo con grandi ineguaglianze con forti differenze di classe dove una piccola minoranza controlla la maggior parte della ricchezza e dove sono endemiche sfruttamento ed accaparramento di terra, ma solo che la classe non è una categoria politica diffusa.

C’è stato un lungo processo in cui l’etnia ha preso il sopravvento a spese di quasi ogni altra questione politica. La transizione alla democrazia ha solo esacerbato la situazione che si è rivelata come un’alleanza tra due gruppi di elite, militari ed intellighenzia, un raggruppamento in favore della democrazia paradossalmente depoliticizzato che gira attorno al NLD di Suu Kyi, che ha dato pochi benefici ai birmani comuni.

L’eredità coloniale

Il dominio britannico lasciò un’eredità velenosa da cui la Birmania deve ancora riprendersi. Il realizzarsi dello stato moderno dipendette da due forze, una centripeta e l’altra centrifuga.

Da un lato i britannici riuscirono ad unire sotto la stessa autorità centrale territori che non erano stati mai unificati; sebbene avessero diviso la Birmania tra una unità centrale amministrativa, Vera Birmania, sotto il governo diretto, e la Birmania amministrata sotto un governo indiretto lasciarono alle elite delle cosiddette tribù di collina la gestione degli affari interni.

Dall’altro il governo coloniale approfondiva le divisioni interetniche e solidificava entità che erano state più diffuse e fluide.

Con il censo e le altre tecnologie dello stato moderno, i britannici sistemarono la serie complessa dei gruppi etno-linguistici in scatole stagne usando politiche che scoraggiavano le interazioni. Per esempio, poiché gli inglesi non si fidavano della maggioranza Bamar, reclutavano Kachin, Chin e Karen, le presunte razze marziali, nelle forze armate. Di conseguenza la mai finita unificazione politica fu accompagnata dalla atomizzazione e disaggregazione delle sue parti costituenti.

Inoltre fino al 1937, i britannici governarono la Birmania come provincia indiana, incoraggiando milioni di indiani ad emigrare trasformando Rangoon in una città a maggioranza indiana negli anni 30. L’elite coloniale favoriva gli Indiani come amministratori, poliziotti e dottori. Avevano un potere spropositato nelle finanze. I nazionalisti birmani quindi erano risentiti amaramente verso la popolazione indiana, in gran parte musulmana, che era vista come tirapiedi dell’impero.

Secondo l’amministratore coloniale e studioso Furnivall, la Birmania nel XX secolo era diventata una “società plurale” in cui “c’era un divisione razziale del lavoro” e “tutte le varie persone si incontravano nel mercato del lavoro ma vivevano divisi e continuamente tendevano a dividersi”

I musulmani entravano anche l’Arakan dalla provincia di Chittagong, un’emigrazione che aveva un carattere differente. Erano lavoratori stagionali che si univano ad una popolazione musulmana di un certo peso che era giunta in periodi precoloniali. Inoltre venivano da uno spazio geografico e culturale per lo più continuo con Arakan che era servito storicamente come area di confine tra i mondi birmani e bengalesi dove si mescolavano da secoli.

L’affermazione dei nazionalisti birmani e Rakhine che la popolazione musulmana Arakan sia arrivata con i britannici, se non dopo, è del tutto insostenibile.

Le tensioni che covavano tra questi gruppi scoppiarono con l’invasione giapponese nella II Guerra Mondiale. La maggioranza della popolazione indiana fuggì in un esodo orrendo che costò loro decine di migliaia di vite. I nazionalisti birmani, guidati da Aung San, all’inizio si schierarono con i giapponesi prima di cambiare parte alla fine della guerra.

Le minoranze etniche tra i quali Karen, Kachin e Chin lottarono con gli inglesi. A volte Aung San si scontrò con loro. La maggioranza Rakhine nel Arakan si schierò con Aung San e i giapponesi, mentre gli inglesi in ritirata armarono alcuni musulmani sperando di fermare la temuta avanzata giapponese in India. L’Arakan discese in una guerra civile brutale che mise musulmani contro buddisti. Alla fine il nord fu pulito etnicamente dei buddisti come il meridione dai musulmani.

Quando la Birmania conquistò l’indipendenza nel 1948, era un paese devastato dalla guerra, con uno stato molto debole e le milizie libere di muoversi nelle province. Nei difficili due anni dopo la fine della guerra, Aung San fece da interlocutore principale con i britannici. La maggioranza Bamar ancora ora lo vede come l’architetto e l’eroe dell’indipendenza, nonostante il fatto che non fosse vissuto fino a vedere l’indipendenza totale della Birmania: un rivale politico lo uccise insieme al suo governo pochi mesi prima dell’indipendenza.

Aung San

E’ difficile inquadrare l’ideologia di Aung San e dei suoi seguaci. Non era un intellettuale ma uomo di azione testardo nel perseguire l’indipendenza. “La sfida della Birmania”, un opuscolo del 1946 che contiene vari discorsi dopo l’espulsione dei giapponesi forse cattura meglio la sua visione.

genitori di aungsan suu kyi
Getty Images/Popperfoto

Mirava a costruire una “vera democrazia” libera dalla “dittatura della classe capitalista”. Prendendo le distanze dal modello classico della democrazia liberale, difendeva il socialismo e il comunismo perché “cercano la connotazione più vasta della democrazia”. Il suo modello sociale chiedeva la nazionalizzazione delle industrie e dei mezzi di produzione principali sebbene avesse ammesso che le condizioni economiche birmane rendevano impossibile creare il socialismo.

Sulla questione delle razze e dell’etnia attinse molto al libro di Stalin, Marxismo e questione nazionale. Secondo questo modello si affermò un po’ arbitrariamente che solo gli Shan erano una minoranza nazionale. Ma nella sua versione nazionalismo, razza, lingua e religione che voleva separata dalla politica non costituivano una nazione. La costituiva solo la “necessità storica di aver una vita comune da condurre”. Voleva accettare Indiani, cinesi e anglo-birmani che vivevano in Birmania in quel tempo con i diritti completi.

I britannici non avrebbero dato l’indipendenza se non fossero stati d’accordo le minoranze etniche. Aung San affrontò con forza questo compito difficile creando l’accordo Panglong, firmato nello stato Shan nel febbraio 1947. Nonostante le sue ovvie debolezze, l’accordo ha trovato uno status quasi mitico come fondamento della Birmania moderna.

Il testo più che un accordo definito si legge come una dichiarazione di intenti. Lo firmarono solo i Kachin, Chin e Bamar. I Karen furono degli osservatori, e Aung San persuase i Rakhine ad attendere l’indipendenza per discutere la loro sovranità. Inoltre preferì trattare con i capi che i britannici avevano designato piuttosto che i rappresentanti più giovani, più progressisti con cui i negoziatori avrebbero richiesto più tempo.

In ogni caso l’accordo accettò “in via di principio autonomia completa nell’amministrazione interna per le aree di frontiera”. La costituzione adottata lo stesso anno dava differenti gradi di autonomia alle are di frontiera e dava agli stati Shan e Karenni diritto alla secessione.

La via birmana al Socialismo.

Molti birmani considerano l’assassinio di Aung San come il momento in cui andò tutto storto. Ma anche se fosse vissuto il paese fu gettato nell’indipendenza in circostanze estremamente critiche.

Esplosero subito varie insorgenze e lo stato debole non riusciva a controllare il suo territorio. Il partito comunista divenne clandestino e dichiarò guerra al governo; si ribellarono anche i Karen che quasi prendevano Rangoon. Nel Arakan, dove era presente una forza comunista, scoppiò una ribellione mujaheed che chiedeva di unirsi al Pakistan Orientale. A peggiorare le cose il kuomintang cinese, dopo la sconfitta contro l’esercito di liberazione di Mao, stabilì delle basi nello stato Shan vicino al confine cinese con l’aiuto dell’intelligence americana.

La politica fu dominata, dopo che il partito comunista si diede alla lotta armata, dalla lega antifascista della libertà del popolo, AFPFL, che si spaccò però nel 1958. Le promesse di Aung San verso le minoranze restarono un nulla di fatto spingendo altri gruppi alla ribellione armata: nel 1961 fu creata il KIA, esercito indipendente Kachine, dopo 13 anni di lotta pacifica per l’autonomia per la sua gente.

Lo stesso anno il governo sconfisse la ribellione mujaheed e riconobbe i Rohingya come gruppo nazionale.

Le figure chiave del periodo erano U Nu e Ne Win. U Nu, che credeva fermamente nel non allineamento sosteneva un’economia mista ed era un pio buddista che fece della sua fede la religione di stato nel 1961, alienandosi cristiani e musulmani. Quando cambiò idea, promettendo l’emendamento della costituzione per assicurare che la loro religione sarebbe stata protetta, i buddisti radicali bruciarono le moschee a Rangoon.

Nel 1962 Ne Win fece il colpo di stato, con poche vittime se paragonato agli altri golpe nella regione, contro il governo di U Nu. Mentre la popolazione era stanca dell’instabilità e delle dispute dell’era democratica, la presa del potere di Ne Win comportò poca opposizione nelle grandi città birmane, ad eccezione degli studenti, importante forza politica sin dagli anni 30, che si ribellarono.

Ne Win lanciò una feroce repressione uccidendo tantissimi manifestanti. Demolì la storica RUSU di Rangoon, l’Unione degli Studenti Universitari, che era usata da decenni come un centro delle attività politiche studentesche. Per tutta la sua dittatura, Ne Win mantenne un controllo stretto sulle università bloccando uno dei centri politici importanti storici della Birmania.

Il laico Ne Win immediatamente invertì la decisione di fare del buddismo la religione di stato e fece di tutto per porre la comunità monastica buddista sotto il controllo dello stato. Ma era un fautore della supremazia dell’etnia Bamar ed adottò un approccio quasi esclusivamente militare nella guerra contro i gruppi etnici armati.

Ne Win isolò la Birmania nella speranza di isolarla dalle sollevazioni della Guerra Fredda che si aggiravano nella regione. Ci riuscì al costo di bloccare lo sviluppo del paese. Adottò quello che lui definì la via birmana al socialismo che consisteva di un’economia autarchica centralizzata e del partito unico.

Quando il suo governo iniziò un processo di nazionalizzazione, lo scopo non fu di redistribuire la ricchezza tra i poveri ma di privare ai presunti stranieri la loro fetta dell’economia. Più che una via birmana al socialismo, il suo sistema fu una via socialista alla Birmanità, in cui il sistema economico aiutava a raggiungere un fine patriottico. In conseguenza della nazionalizzazione, centinaia di migliaia di birmani di origine indiana furono spinti verso il subcontinente indiano.

L’operazione Re Dragone lanciata nel 1978 nel Arakan era parte di questo piano. Istituita visibilmente per distinguere gli immigrati clandestini che entravano dal Bangladesh, il progetto spinse quasi 250 mila Rohingya nel paese vicino. Burma ne accettò molti indietro dopo un accordo di rimpatrio bilaterale, e il Bangladesh spinse molti a tornare nel Arakan, ma l’operazione segna l’inizio di decenni di oppressione.

Nella costituzione del 1974, Ne Win proclamò il Partito del Programma socialista Birmano, BSPP, il solo partito, ma non riuscì mai a costruire un’organizzazione abbastanza forte da stabilire il governo del partito unico. La direzione del BSPP veniva dai militari e si trasformò in una appendice del Tatmadaw. Nel 1988, una sollevazione per le cattive condizioni economiche fu repressa brutalmente riuscendo però a rovesciare Be Win e il BSPP. Essi furono sostituiti da una dittatura militare persino più oppressiva.

La via Birmana al capitalismo

La giunta militare che subentrò a Ne Win si definì Consiglio di restaurazione dell’ordine e della legge di stato, SLORC, per divenire nel 1997 Consiglio dello sviluppo e della pace dello Stato, SPDC. La giunta si presentò sempre come un governo provvisorio che avrebbe creato le condizioni per un ordine costituzionale che l’avrebbe sostituito. Fino ad allora avrebbe governato per decreto in uno stato permanente di eccezione.

La giunta abbandonò presto la patina socialista del regime precedente governando con la forza pura. Poiché mancava di un’ideologia a sostegno e senza una legittimità popolare, i generali si atteggiarono a eredi degli antichi re birmani. Resero di fatto il buddismo religione di stato definendosi suoi protettori finanziando pagode e monasteri.

I generali iniziarono anche un processo di liberalizzazione economica che però non decollò. Le potenze occidentali avevano imposto sanzioni in risposta alle violazioni dei diritti umani del regime che dovette corteggiare il suo vicino cinese che aveva ritirato il suo appoggio dal Partito comunista Birmano, CPB.

I Comunisti erano implosi nel 1989 quando la base delle minoranze si era ribellata alla guida dominata dai Bamar. Adattandosi alla politica delle razze, dalle ceneri del CPB nacque un gruppo etno-nazionalista, UWSA, esercito dello stato Wa Unito, che resta la milizia meglio armata e più forte nel paese grazie al commercio della droga e al sostegno cinese.

L’apertura economica significò che la Birmania dipendeva sempre più dagli investimenti Cinesi. Creò una nuova classe di uomini di affari ricchi: gli infami compari che ora posseggono grandiosi conglomerati e controllano gran parte dell’economia insieme alle imprese gestite dai militari.

Il potente capo dei servizi segreti Khin Nyunt firmò una serie di cessate il fuoco con vari gruppi etnici armati compresi Wa e Kachin. Questi accordi non erano un accordo politico che la giunta militare evitò fino a quando un “governo legittimo” potesse decidere la questione storica dell’autonomia politica delle minoranze etniche. Ma nei territori come lo stato Kachin, i generali si avvantaggiarono della pace per espandere i loro affari e controllare proprietà di valore in un processo definito da Kevin Woods “capitalismo da cessate il fuoco”.

legge del 1982 in myanmar

Nel Arakan, la giunta decise di usare la legge della Cittadinanza del 1982 contro la popolazione Rohingya. Poiché la legge limita la cittadinanza piena a coloro che appartengono ad una “razza nazionale” e poiché la lista “definitiva” non include la popolazione Rohingya, fu loro negata la cittadinanza.

La legge riconosce coloro che potrebbero reclamare la cittadinanza secondo la legge del 1948, che coprirebbe molti Rohingya. Ma le autorità dello stato confiscarono i documenti della maggioranza dei Rohingya, promettendo loro nuove carte di identità che non furono mai date. Quindi la stragrande maggioranza dei Rohingya divenne apolide.

Durante il suo governo lo SLORC/SPDC represse l’opposizione democratica di Aung San Suu Kyi, spinse vari gruppi etnici a fragili cessate il fuoco oppure li combatte con grande violenza e rafforzò l’esercito e la burocrazia di stato che fu completamente subordinata ai militari. Nel frattempo restò ligia al suo concetto di “democrazia disciplinata” che Khin Nyunt creò nel 2003, prima che fosse cacciato l’anno dopo dal generale supremo Than Shwe.

Questo percorso includeva una nuova costituzione che naturalmente avrebbe mantenuto la posizione prominente dei militari. Nel novembre 2010 SPDC tenne le elezioni a cui NLD non prese parte e che il partito della giunta USDP vinse con un inverosimile largo margine.

Pochi mesi dopo SPDC si sciolse e l’ex comandante Thein Sein assunse la presidenza. La transizione salutata da molti osservatori internazionali era cominciata sul serio. Il Tatmadaw iniziava da una posizione di forza che nulla, neanche la vittoria del 2015 del NLD, poteva cambiare facilmente.

La via birmana al neoliberismo

opposizione democratica

Aung San Suu Kyi salì alla ribalta nazionale e mondiale dopo la rivolta del 1988 contro il regime Ne Win rappresentando alla fine le aspirazioni democratiche e dei diritti umani del popolo birmano. La sua autorità inizialmente veniva dall’essere figlia di Aung San e dal sacrificio personale, come i quindici anni passati agli arresti domiciliari. Era un’icona attraente per la stampa internazionale, oltre che alunna di Oxford dall’inglese perfetto, che lottava con grazia un mucchio di generali violenti. Lei diede un narrazione ben definita da bene contro il male in un paese la cui complessità in pochi conoscevano.

Dalla tranzione iniziata nel 2011, ha creato buone relazioni con i generali piuttosto che mobilitare la gente il cui sostegno ha semplicemente considerato certo, date anche le due elezioni vinte in modo entusiasta del 2012 e del 2015, quando poi salì al potere.

Non deve sorprendere il suo riavvicinamento con i militari. Nel suo discorso più importante, nel 2008, disse di sentire un “forte attaccamento per le forze armate” poiché “non solo erano state create da mio padre, da bambina ero tenuta in braccio dai suoi soldati”. Il personale diventa spesso politico quando si tratta con La Signora, un nomignolo che si guadagnò da quando persino proferire Suu Kyi poteva far finire nei guai chi lo diceva.

In quel primo discorso, implorò l’unità “tra le forze armate che mio padre costruì e la gente che amava così tanto mio padre”. Ma l’ideale di unità è stata sempre dubbioso per tutta la storia birmana come nazione indipendente. I militari, l’opposizione democratica e i capi etnici hanno reso il concetto quasi sacro tanto che ogni atto di dissenso sembra un attacco frontale alla nazione.

L’approccio di Suu Kyi alla transizione ha reso il partito una forza politica inefficiente. Puntando tutto il proprio peso sulla relazione positiva con i generali, ha fatto del NLD qualcosa di reattivo. I generali sono rimasti alla sommità da quando è iniziata la transizione e NLD ha fatto la parte scritta per esso dalla ex giunta.

Questa strategia rivela la profonda sfiducia nella politica della partecipazione. Ha affrontato le proteste genuinamente democratiche contro l’accaparramento dei suoli con indifferenza e velata ostilità. L’ironia è che lei deve il proprio potere all’ondata delle proteste di massa di cui ora è simbolo.

Suu Kyi ha affrontato l’ondata della violenza settaria e il confinamento di decine di migliaia di Rohingya musulmani nei campi di concentramento con un silenzio studiato e affermazioni ambigue.

Quando le si è chiesto di questi eventi, rispose che “iniziai la politica non come un difensore dei diritti umani o uno che lavoratore umanitario, ma come capo di un partito politico” stabilendo una falsa dicotomia tra di ritti umani e politica.

Importante comunque è che la mancanza di risposte alla pulizia etnica va contro le sue posizioni precedenti. Nella mia intervista nel 2011, le chiesi di descrivere la democrazia che aspirava a costruire. Vagamente rispose che c’è democrazia “quando si ascolta la voce della gente” e la spinsi a dichiarare i sostegni ideologici. “La dichiarazione universale dei diritti umani” rispose.

Questa risposta rivela la povertà della sua politica. Adorata per anni come icona dei diritti umani, è diventata un politico che deve fare calcoli per vincere o mantenere il potere. Infatti molti difendono la sua passività sui Rohingya come strategia politica: è disposta a sacrificare una minoranza impopolare per stabilire la democrazia nel paese intero. Ma è diventato sempre più chiaro che lei e la grande maggioranza dei membri del partito condividono profondi pregiudizi contro i Rohingya condivisi anche dai militari da molti birmani e dai nazionalisti Rakhine.

Il reale problema di Suu Kyi comunque, oltre il suo razzismo e il suo segno autoritario, è che non è abbastanza politica. La sua visione del paese non è politica, ma morale. Come lo ha detto oltre due decenni fa, vuole una “rivoluzione dello spirito” e per altro molto puritana. La sua politica sono una serie di frasi vaghe come “riconciliazione nazionale”, “governo della legge”, “pace” e “sviluppo”. Non ha espresso politiche di accompagnamento alla sua retorica a favore delle masse povere birmane.

Secondo il suo punto di vista, ogni birmano deve fare il proprio dovere senza mettere in pericolo la struttura socioeconomica della nazione. Qualche anno fa, assicurò gli amici dei militari che avevano ammassato immense fortune nel periodo del SLORC/SPDC che non avrebbe minacciato la loro posizione sebbene avesse chiesto loro di “agire in modo equo” e “lavorare per gli altri”. Suu Kyi non crede che il cambiamento giungerà da una revisione sistematica, ma dalla redenzione morale di chi comanda e dai sacrifici e dal lavoro duro di chi sta sotto, tutti uniti in uno spirito di solidarietà nazionale.

suu kyi

Aung San Suu kyi pone la responsabilità individuale al centro della sua visione “politica” . In quel senso è una neoliberista particolare: mentre non sembra credere nell’azione collettiva se non segue i dettati di un capo forte, lei stessa, ritiene che ognuno è responsabile della propria situazione.

In questo modo blocca in modo attivo uno sviluppo politico in Birmania, come fa in tutto il mondo il neoliberismo rendendo l’azione politica impotente di fronte al mercato. Tale depoliticizzazione crea un vuoto che è prontamente riempito da quel tipo di nazionalismo etnico xenofobo così prevalente in Birmania e dovunque oggi.

Carlos Sardiña Galache, jacobinmag.com

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