La crisi umanitaria dei profughi Rohingya e Bangladeshi nel mare delle Andamane non accenna a placarsi. Mentre i governi Indonesiano, Malese e Thailandese hanno tutti adottato la politica di respingimento dalle loro acque nazionali, il governo birmano naturalmente nega che ci siano questioni etniche o razziali. Si tratta solo di traffico di schiavi che non è causato dall’esodo di Rohingya a causa di conflitto e discriminazione nello stato birmano Rakhine.
Il ministro dell’informazione Ye Htut ha definito la crisi “solo un problema di traffico umano” che dovrebbe essere risolto dai governi colpiti dal commercio.
“Alcuni dicono che queste persone hanno provato a scappare dallo stato Rakhine dove c’è il conflitto ma non siamo d’accordo. I trafficanti hanno portato queste persone in Thailandia e Indonesia. E’ solo un caso di traffico umano. Come paese membro dell’ASEAN e della comunità internazionale lavoreremo per risolvere questo problema” ha detto il ministro che però non ha promesso di recarsi a Bangkok il 29 maggio in un incontro indetto dalla Thailandia.
Della gente che ha abbandonato lo stato Rakhine, dove ci sono almeno 140 mila profughi internati in squallidi campi di concentramento creatisi dopo le violenze settarie del 2012, lo stato birmano sostiene che si tratta di Bengali, di gente del Bangladesh immigrata illegalmente in Birmania. Ci sono 1,2 milioni di Rohingya in Birmania a rischio di genocidio, a cui è negata la cittadinanza ed ogni diritto umano più fondamentale.
Ye Htut ha promesso la cooperazione nell’aiutare a determinare chi è veramente partito dalla Birmania. “La nostra posizione è chiara” dice Ye Htut. “Prima dobbiamo iniziare un processo di verifica per determinare lo status di queste persone. Se provengono dalla Birmania e ci sono prove a sufficienza per dirlo, la Birmania è pronta a riprenderli”. Il problema è che la negazione dell’esistenza di Rohingya, il loro stato di apolide in Birmania come in qualunque altro stato rende la situazione molto difficile.
Nel frattempo la situazione per i profughi si fa difficile con la politica del Ping Pong con gli esseri umani fatta da Malesia, Thailandia ed Indonesia che hanno promesso di respingere le navi che entrano nelle loro acque del mare delle Andamane, nonostante gli inviti dell’ONU la cui stima è che almeno 25 mila persone hanno lasciato le coste del golfo del Bengala su barche malmesse. L’IOM, l’organizzazione mondiale della migrazione, sostiene che ci possano essere almeno 9000 persone in mare
In questo quadro di respingimenti, la nota positiva viene dalla popolazione di Aceh. Dopo il primo respingimento di alcune navi a cui era stato dato del cibo e dell’acqua, le navi sono ritornate sulla riva portando con sé storie di violenze tra profughi per potersi spartire quel poco di acqua e di alimenti a disposizione.
Al Jazeera racconta la testimonianza di un giovane di 15 anni, Salmahan, che racconta come le diatribe etniche siano accadute tra gli stessi profughi, tra Bangladeshi e Rohingya facendo la morte di moltissimi suoi familiari.
“Dopo gli scontri, i pescatori della provincia indonesiana di Aceh ritrovarono le navi alla deriva e si sono mobilitati in massa per salvare i sopravvissuti e portarli a Langsa.
Noi pescatori abbiamo il codice che in mare si è tutti fratelli e sorelle, che siano stranieri o indonesiani. Se qualcuno chiede aiuto noi come pescatori abbiamo l’obbligo di aiutarli senza guardare alla razza, alla religione o ad altro. – ha detto un pescatore locale Ridwan.”
Naturalmente le autorità indonesiane hanno interrogato i pescatori accusandoli di aver violato le politiche navali.
Lo stesso atteggiamento di compassione lo si ritrova in Malesia da parte di cittadini comuni che hanno lanciato campagne di donazione.
Dice Vivian Tan del UNHCR :
“Da un lato vediamo i governi che litigano per trovare i modi per trattare con qusti profughi di mare. Ma dall’altro è incoraggiante vedere che la gente di questa regione ha risposto con grande generosità a questi profughi. La risposta pubblica è stata enorme e i governi hanno bisogno di seguire questo esempio e lasciare che la gente tocchi terra quanto prima”.
Uno studioso islamico ha fatto notare un’ironia che il governo sta ancora cercando un aereo della Malaysia Airlines inabissatosi in mare un anno fa, “mentre quelli che sono ancora vivi li lasciamo morire in mare”
E’ una situazione disperata sulle barche rispedite al largo, come denuncia Al Jazeera, dove almeno una decina di persone si sarebbe suicidata gettandosi in mare.
“I tentativi di Kuala Lumpur di respingere i migranti ha acceso una grande rabbia in Malesia, paese a predominanza musulmana dove cittadini e gruppi musulmani hanno lanciato delle donazioni per raccogliere alimenti, vestiti e medicine per un carico di oltre un migliaio di migranti giunti su un’isola malese il 10 maggio e tenuti in un campo di detenzione.
Marina Mahathir, figlia dell’ex premier Mahatir Mohamad e attivista sociale, ha fatto un appello affinché si portassero alimenti a chi è stato respinto in mare. ‘Abbiamo bisogno di dare una qualche soluzione. Non ci possiamo lavare le mani così‘ ha detto l’attivista”.
Ma la Malesia non ha alcuna intenzione di prendere altri migranti oltre ai 45 mila Rohingya che già sono entrati negli anni scorsi e che anche in Malesia sono vittima dei soprusi e dello sfruttamento della polizia.
Dalla Birmania un portavoce di Aung San Suu Kyi ha detto che i musulmani della nazione birmana hanno i diritti umani come tutti. “Se non sono accettati come cittadini, non possono essere mandati via. Non possono essere cacciati in mare. Sono degli esseri umani e come tale hanno i loro diritti umani”.
Si calcola che 2500 siano approdati in Malesia ed Indonesia mentre altri 5000 sarebbero ancora in mare con le risorse alimentari e di acqua che diventano sempre di meno.
“Dobbiamo aiutarli poiché sono nostri fratelli” dice Hayaturrahman Djakfar, un indonesiano. “e perché lottano per una vita migliore e la protezione. Non c’è ragione per non aiutarli”.
La Thailandia, la cui repressione del traffico dei campi clandestini nella giungla del meridione avrebbe innescato questo esodo via mare, teme che questa crisi possa avere ripercussioni più profonde sulla propria immagine internazionale.
Si ricorderà che la Thailandia è stata retrocessa dagli USA e dalla EU per l’impiego di lavoro forzato e di persone derivanti dal traffico umano nell’industria della pesca. La scoperta dei campi sul proprio territorio, con tante fosse comune, ha costretto i militari a prendere in seria considerazione la questione.
Da un lato prova a reprimere il traffico arrestando sospettati e muovendo in altri posti gente della polizia, dall’altro ha provato a indire una riunione dei paesi colpiti dal traffico nel mare delle Andamane.
Ha proposto allo stesso tempo una “area di transito” per i Rohingya che si trovano sulle barche per dare assistenza umanitaria, ma non un confino o un rifugio permanente, finché non si ricollocano i migranti. E’ una decisione dopo la critica dell’ONU alle politiche di respingimento. “Tutto si baserà sui principi internazionali poiché i Rohingya sono esseri umani” ha detto il ministro Prawit Wongsuwan che avrebbe aggiunto di non essere preoccupato per l’arrivo di altri migranti. “Non pensateci molto. Faremo tutto quello necessario. Lo abbiamo fatto in passato non solo con i Rohingya ma anche con i laotiani e cambogiani”.
Il ministro ha precisato che non si tratta di respingimento ma solo di seguire le volontà dei Rohingya che vogliono andare in un terzo paese e di applicare la legge della Thailandia in merito.